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Ergastolo o rieducazione? Il difficile dibattito sul carcere a vita

by La Redazione
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Roma, 26 ott – L’intervento della Corte costituzionale sulla concessione dei benefici penitenziari – segnatamente del permesso-premio – anche ai condannati all’ergastolo che non abbiano collaborato con la giustizia arriva pochi giorni dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo sull’ergastolo ostativo (nel caso Viola c. Italia, divenuta definitiva l’8 ottobre con il rigetto della richiesta del governo italiano di rinvio della causa alla Grande Camera) e conferma quanto acceso sia il dibattito sul nostro sistema penitenziario e, in particolare, sul carcere a vita.

Perché l’ergastolo

La questione, infatti, appare irrimediabilmente complicata dalla collocazione di questo istituto sulla linea di confine tra le necessità di matrice securitaria, che hanno reso sempre più aspra la disciplina, e le finalità rieducative della pena, che devono caratterizzare l’esecuzione di ogni sanzione e impongono non solo di attenuare il rigore punitivo per contenerlo entro una soglia di tollerabilità e proporzionalità, ma anche di adeguare l’espiazione al percorso rieducativo di ciascun condannato secondo un principio di individualizzazione. Così, alle istanze di carattere rieducativo si contrappone la necessità di mantenere ferma la reazione dello Stato rispetto a manifestazioni criminali particolarmente allarmanti e cruente. Del resto, rimane difficile accettare che i responsabili di delitti tanto gravi ed efferati, condannati a terminare i loro giorni in galera o a patire pene pesantissime, possano tornare in libertà prima del tempo, quando ancora non hanno chiuso il loro conto con la giustizia.

Si tratta di problematiche che, a ben vedere, riguardano qualsiasi tipologia di pena detentiva, ma che nell’ergastolo si avvertono in maniera più evidente poiché da un lato privano il condannato di qualsiasi aspettativa di modificare le condizioni detentive o riacquisire pur parzialmente la libertà almeno nella parte conclusiva, dall’altro riguardano la sanzione più grave prevista dal codice, che richiama vicende – mafia, terrorismo e simili – che destano al massimo grado l’attenzione dell’opinione pubblica.

Insomma, è una materia nella quale è difficile individuare un punto di equilibrio, soprattutto a causa di quelle sollecitazioni, di carattere più “politico” che giuridico, che intorbidano le acque già limacciose nelle quali è impantanato l’ordinamento penitenziario italiano.

Viene da chiedersi, perciò, dove si collochi il momento nel quale la severità della sanzione, giustificata dalla gravità dei reati commessi e dalla pericolosità del criminale, si trasforma in un ingiustificato furore sanzionatorio, che non ha cittadinanza nella Carta costituzionale.

Ergastolo o rieducazione?

Esistono alcuni punti fermi intorno ai quali impostare il discorso, e da questi conviene muovere.

Senz’altro, nessun ragionamento può prescindere dalla tutela della dignità del condannato: un approccio rispettoso del dettato costituzionale bandisce tutti quei trattamenti che, non soltanto dal punto di vista fisico, ma soprattutto dal punto di vista psicologico si rivelino lesivi della persona. L’esecuzione di una pena, allora, non deve assumere connotati più afflittivi di quelli che sono necessaria conseguenza della privazione della libertà e, allo stesso modo, ogni ulteriore restrizione dei diritti del detenuto deve trovare una puntuale giustificazione in reali esigenze di sicurezza. Il “carcere duro”, insomma, non può essere utilizzato per finalità diverse da quelle per le quali era stato inizialmente concepito, ossia impedire a soggetti pericolosi di continuare a delinquere nonostante la detenzione.

Il rispetto della dignità della persona impone, poi, di garantire anche ai responsabili di reati gravissimi la possibilità di seguire un percorso di rieducazione e di risocializzazione, che scaturisca dalla consapevole rimeditazione delle proprie azioni. Qui, il rispetto della dignità del condannato assume il significato del mantenimento di una speranza: quella di finalizzare ad un qualche scopo la parte di vita trascorsa in detenzione. L’attuale disciplina non lo consente: il meccanismo di incentivo alla collaborazione che rende la persona strumento di politica criminale, pur legittimo – anche se i benefici dovrebbero essere concessi non affinchè il condannato collabori, ma perchè ha collaborato – appare particolamente feroce quando è applicato agli ergastolani. Ragionando in questi termini, coerentemente con le tendenze attuali, si dovrebbe rifiutare l’ergastolo o, comunque, una pena detentiva che non conosca fine diversa dalla morte del condannato, così come si dovrebbero rifiutare meccanismi che affidano il trattamento a rigidi automatismi, che non consentono di valutare i cambiamenti della personalità del condannato.

Ma se questa può essere una conclusione accettabile nella maggior parte dei casi, non è sufficiente ancora a escludere in via definitiva l’ergastolo ostativo dall’arsenale sanzionatorio.

Esistono fatti che per la loro eccezionale gravità richiedono ancora una reazione ferma e irreversibile, la cui severità non si collega a un sentimento di vendetta, ma alla originaria finalità della pena che ha lo scopo di punire il responsabile del reato e – per utilizzare le stesse parole con le quali l’illuminista Beccaria ammetteva addirittura la pena di morte – di indurre altre persone ad astenersi dal delitto.

È chiaro, tuttavia, che il ricorso a una simile sanzione è giustificato soltanto in situazioni estreme, per fronteggiare manifestazioni criminali di notevole pericolosità – che non sono certamente tutte quelle comprese attualmente comprese nell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario – e non per acquietare transitorie paure dell’opinione pubblica o soddisfare inaccettabili frenesie forcaiole.

A.S.G.A.R.

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Commodo 27 Ottobre 2019 - 11:34

Per “rieducare” certa FECCIA serve BEN ALTRO che l’ attuale sistema carcerario Itagliano! Come minimo si dovrebbe prendere a modello il sistema carcerario di “santa” madre chiesa nel periodo che va dal 1400 al 1750 circa. Si diceva, al tempo della caduta della Repubblica Romana: “Signor Giuseppe Mio, che ve ne pare? Di questi POPOLACCI PAPALINI? Che rinnegano Voi, Saffi, Armellini, e messer Belzebù, Vostro compare, per rimettere sul trono e sull’ altare un PRETE che NON AMA gli ASSASSINI! E pospone agli Oracoli Divini, le Vostre profezie SEMPLICI & CHIARE?…” Altri tempi…..

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