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Le foto-choc dalle terapie intensive hanno rotto (e non funzionano più)

by Cristina Gauri
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Roma, 19 nov – Scricchiola la pornografia dei malati di Covid, immortalati mentre lottano contro la «fame d’aria» nelle terapie intensive, magistralmente fotografati da qualche professionista o dagli stessi medici. Fanno alzare gli occhi al cielo a sempre più persone i piagnistei da passerella dell’infermiera «bona» di turno che mostra i segni delle mascherine o si fa immortalare esausta mentre dorme appoggiata all’ambulanza. L’impianto iconografico su cui si basa il terrorismo mediatico del virus sta iniziando a stancare, per usare un termine educato.

La pubblicità progresso non ha mai funzionato 

Il giochino della foto-deterrente, del babau sanitario, del ricatto morale, del «se non ti metti la mascherina i tuoi connazionali muoiono», si sta iniziando a rompere. Del resto, perché il trick dovrebbe funzionare con tutti? Le pubblicità progresso sono mai servite realmente a qualcosa? La gente continua a morire per gli effetti di alcol e sigarette, continua a farsi di eroina in vena e prendersi allegramente l’Aids nonostante le ore di spot educativi. Perché con il Covid-19, quindi, dovrebbe funzionare diversamente? I medici, mostrando i moribondi, dicono di voler «Mandare un messaggio», «raccontare l’impegno», «far arrivare a tutti la richiesta di aiuto», ma è sottile, a volte invisibile, la linea tra le buone intenzioni e la mitomania narcisista.

Uno specchietto per le allodole

Sempre più italiani, d’altronde, prendono coscienza. Riconoscono che si tratta di uno specchietto per allodole, piazzato lì per distrarre da un altro racconto: quello che narra di uno Stato italiano incapace di tenerci al sicuro e di curarci dall’epidemia, di attrezzare per tempo la sanità ed evitare che milioni di noi si ammassassero sui mezzi pubblici a settembre. Lo Stato che, per ovviare alla sua incapacità, diffonde odio e divisione mettendo i cittadini gli uni contro gli altri, lasciando che si puntino il dito a vicenda, si abbandonino alle delazioni e cadano nei pozzi dell’infamia. La foto del malato è il drappo rosso perfetto da agitare sotto gli occhi di questa gente. E i media le propongono in ogni salsa, le usano e ne abusano alla nausea, alla stregua dei memento mori medievali – ma con propositi assai poco divini. Il memento mori di un tempo veniva mostrato perché il cristiano si ravvedesse e si preparasse alla morte, certa, entrando in grazia di Dio. Preparati ora finché sei in tempo. Quello odierno si propone invece di scavalcare la morte, di non arrivarci proprio, come se peraltro fosse il Covid l’unica causa di decessi. L’uomo moderno crede solo a questa vita, ed è terrorizzato dal perderla. Ma la musica sta cambiando.

Il linguaggio visivo non è il mestiere dei medici

Se ne sono accorti anche i curatori di Cortona on the Move, uno dei festival fotografici più noti in Italia, che secondo quanto riporta Repubblica è diventato «l’archivio nazionale dell’immaginario pandemico», a cui in questo periodo arrivano solo foto dalle terapie intensive. «Scrivono: qui siamo in guerra più dell’altra volta, ma la gente adesso non vuole più vedere», riferisce Antonio Carloni il direttore del festival, parlando dei medici a Repubblica. «Purtroppo, non basta accumulare immagini di infermieri stanchi e di medici bardati per rinnovare l’emozione e la solidarietà. Chi scatta quelle fotografie lo fa con le migliori intenzioni ma il linguaggio visivo non è il loro mestiere. Cercano accanitamente la foto-simbolo, non si rendono conto di ripetere dei cliché».

Foto simbolo che hanno nauseato

Tutto è iniziato con la foto-simbolo della prima ondata. L’infermiera Elena Pagliarini, che il sonno colse accasciata sulla tastiera del computer mentre refertava le cartelle cliniche. L’immagine venne scattata da  Francesca Mangiatordi, la dottoressa del pronto soccorso di Cremona. Ma oggi la Mangiatordi fa parte dell’esercito dai nauseati: «Mi rifiuto ormai di vedere quel genere di fotografie. Lo dico io, sì, che con una foto di quel tipo ho lanciato un allarme. Ora mi sembra che troppe fotografie terrorizzanti finiscano per essere un boomerang: la gente è portata a pensare che un ricoverato in intensiva sia ormai perduto». Non c’è poi come ripetere all’infinito un’immagine per normalizzarla e renderla omogenea al resto, diluendone l’effetto. Ma questo, i volenterosi infermieri e medici che credono di fare un favore alla narrazione, non lo sanno. Perché sono medici e infermieri, bravi e preparati. Ma dovrebbero limitarsi a fare il loro mestiere, che sicuramente non è quello dell’informazione. E si vede.

Lo pensa anche Alessio Romenzi, fotografo vincitore del World Press Photo: «l’idea che un’immagine possa fare da deterrente a un comportamento è ingenua – spiega –. È impossibile dire se queste fotografie di malati in condizioni estreme possano convincere qualcuno a stare in casa, a usare la mascherina…». Che genere di fotografie servirebbero, allora? «Forse immagini di speranza», suggerisce Mangiatordi, «positivi tornati a casa. Ma non ne sono certa. La gente oggi crede più a quel che pensa che a quel che vede». «La vera immagine della seconda ondata», spiega Carloni, «rischia di essere il morto nel bagno di quell’ospedale di Napoli. L’immagine della nostra impreparazione».

Cristina Gauri

 

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