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Viaggio nel campo profughi di Tiburtina, dove lo Stato si è già arreso

by La Redazione
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11638053_1001730769845448_274037803_nRoma, 14 giu –  “Eritrea, Sudan, Libia, Italia. Ecco il mio viaggio. Ora voglio andare in Svizzera”. Me lo dice sorridendoTeklit, 27 anni, eritreo, in un inglese stentato, ma comunque più fluido di quello di alcuni nostri laureati. Sono le dieci del mattino e lui sta seduto con un gruppetto di altri ragazzi all’ombra, sul marciapiede fra via Tiburtina e Piazza delle Crociate (la toponomastica, oggi, rende tutto più pregnante).

“Che fate?”, domando. “Aspettiamo”. E mentre gli chiedo “che cosa?” mi rendo conto di essere in una situazione talmente balorda che fa concorrenza ad una pièce di teatro dell’assurdo.

Teklit non mi risponde “Aspettiamo Godot”, ma allarga le braccia. È uno dei 600 immigrati che in questi giorni stazionano a Roma, vicino al centro di accoglienza della comunità etiope e eritrea.

Il centro Baobab, che come il gigantesco albero africano sta dando riparo a questa massa di uomini sbarcati in Sicilia, stipati sui 11291412_1001730749845450_262392056_npullman e fatti scendere qua. In questi 500 metri di strada a due passi dal centro di Roma, capitale d’Italia. “Ci ha portati la polizia” dicono e ora, semplicemente, stanno qua. Nessuno sa per quanto.

Sotto l’insegna pubblicitaria di un ristorante che poteva chiamarsi in molti nomi, ma che si chiama “Le crociate”, con tanto di cavaliere armato disegnato, staziona un altro gruppetto di ragazzi. Sono buttati per terra, alcuni senza scarpe. Qualcuno stringe a sé una piccola borsa, uno zainetto, da uno un po’ aperto, sbuca una camicia a quadretti azzurri e beige. Il ragazzo che lo ha appoggiato a terra lo chiude e se lo porta al petto: ha l’aria di essere roba piuttosto preziosa, quello zainetto nero. Chiedo a Teklit dove sia il suo e mi fa cenno che lui non ne ha. Allarga le braccia, sorride. E a me si stringe il cuore, di fronte a lui e a tutta questa gente scaricata qua, con la promessa dio sa di che cosa.

Dormicchiano, parlottano, qualcuno ha in mano un cellulare, passeggiano su e giù. Tre vecchiette romane passano lì vicino, li guardano. E non si può non guardarli. “Sono tanti, tanti”, sospira la ragazza alla cassa del bar. “E questo ancora non è niente”, aggiunge lapidario il barista. E allarga le braccia anche lui. Poco più in là, proprio di fronte al suo bar così curato, un odore insopportabile di urina e immondizia. “Roba da non credere” borbotta un netturbino.

11289894_1001730776512114_929886525_nGià, quasi non ci si crede in effetti. In zona neanche l’ombra di un poliziotto, un mediatore culturale, un vigile urbano. Nessuna minima traccia dello Stato.

Solo qualche volontario e loro: centinaia e centinaia di persone. Una marea di uomini, donne e bambini africani. Uomini soprattutto. “Dove sono le vostre mamme, le vostre sorelle, le vostre mogli?”. Domando. “Sono rimaste a casa”. “Le avete lasciate là?” domando a una ragazzetto che mi ha appena spiegato che in Eritrea “non c’è libertà”. “Sì” risponde candido. E viva la sincerità.

“Nessuno vuole stare in Italia” precisa un ragazzo con la faccia simpatica che mi dice di chiamarsi “Milion” – un nome un programma – “qua non c’è lavoro, non c’è niente per noi. Io aspetto i soldi dalla mia famiglia e poi voglio andare in Germania”. Ah ecco.

“Ma non ti hanno detto che è difficile andarci?” gli chiedo pensando alle frontiere chiuse, alla polizia austriaca che li rimanda indietro a frotte e a Shengen andato a farsi benedire, “Ci sono dei confini”. Lui mi guarda incuriosito. Credo stia pensando che sono una povera scema. “Tutto è difficile”. E in effetti, di fronte all’Africa che ha attraversato, una tendopoli al Brennero ha pure un certo fascino.

Di sicuro più del posto in cui stanno adesso. Un po’ nell’aiuola di una strada, un po’ sul marciapiede, un po’ nel cortile del centro Baobab. Oggi, nonostante conservi qualcosa di quello che qualche settimana fa poteva essere un ambiente caldo e curato, pare un girone dantesco.

11421590_1001730799845445_1377714920_nUna sessantina di persone sta ammassata lì, tante donne e bambini. Buttati a terra, fra panni stesi, pezzi di cibo, borse, fazzoletti. Alcuni bambini sgambettano, un piccoletto nudo dalla pancia in giù si aggira tranquillo. Una donna che pare eritrea entra ed esce con indossso guanti e mascherina. Il che non mi rassicura per niente. Ancora meno quando un bimbetto simpatico mi corre incontro abbracciandomi le ginocchia per giocare. Fino a un attimo fa trotterellava accanto ad un ragazzo con i segni di un’evidente malattia dermatologica sulle gambe, dalle quali staccava con cura pezzetti di pelle. E non mi consola vedere che qui tutti entrano ed escono liberamente.

Di tanto in tanto arriva qualche famiglia italiana portando pacchi di pasta e biscotti. Alcuni sembrano i re magi alla grotta: in fila indiana, mamma e papà davanti, bambini dietro (è evidente che vogliono insegnare ai figli ad essere buoni col prossimo più sfortunato ma uguale a noi). Tutti si rivolgo a me scambiandomi per la responsabile del centro.

Una ragazza sui 25 anni con dei pantaloni svolazzanti che si inzuppano subito nella pozzanghera all’ingresso mi dice che vorrebbe aiutare, rendersi 10708387_1001730806512111_1886496523_nutile, chiede quali moduli deve compilare. Ha un sorriso angelico ed entusiasta e resta piuttosto delusa sentendo che sono una giornalista. Sfodera un termine nuovo, che di certo ha tutte le carte in regola per entrare nel nuovo dizionario. “Sono tutti transitanti, vero?”. “Scusa?” . “Transitanti” – anche lei mi sta dando mentalmente della scema – “nel senso che non vogliono stare in Italia, sono solo in transito”. Eh già, il transito dei sogni…

Poi entra lei, Alice nel Paese delle Meraviglie. Occhi celesti, capelli biondo bambola, pelle diafana. È una giornalista di un’importante radio nazionale. Si guarda intorno, evidentemente sconvolta. “È una situazione drammatica,- sussurra sotto shock- sono tantissimi. Ho letto che anche al nord c’è il caos”. Ecco, brava: Alice alla scoperta del “paese reale”. Restiamo vicine. Dall’alto 11429638_1001730846512107_1600150232_nsarebbe una foto perfetta per il National Geographic. Due femmine pallide in piedi, in mezzo a questa moltitudine di uomini e donne nere come la pece. Il silenzio è surreale, il sole picchia. Tutti aspettano qualcosa. Adesso anche io. E neanche io so cosa. L’immobilità si è come impossessata di tutti.

Spezza l’incantesimo il ragazzo con le pustole sulle gambe. Quando si alza e viene verso di noi, stabilisco che la mia ipocondria ha appena vinto e trascino Alice fuori con me.

11422720_1001730863178772_598378415_nAccanto al tabellone col ristorante dei crociati adesso ci sono dei grossi pullman. “Italia-Romania” hanno scritto sulla fiancata. “Visto quanta gente?”, domando a una coppia di ragazzi biondi . Lei ha un bambino in braccio, lui sta scaricando dei pacchi. Mi guardano offesi, pensando forse che io stia facendo dei paragoni: “Questi sono regolari pullman di linea. Re-go-la-ri”. E scusate pure voi.

Mi allontano pensando ad Alice. Il momento in cui vieni travolto dalla realtà è sempre sconvolgente.

Ma tant’è. A due passi da lì c’è Via della Lega Lombarda. Su un terrazzo al terzo piano c’è un tricolore che sventola piano. Fa quasi tenerezza. È logoro e sbiadito, ma non così tanto, in effetti, da essere scambiato per una bandiera bianca.

Sofia Bassi

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1 commento

Vittorio 14 Giugno 2015 - 12:50

Ottimo reportage

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