“Che fate?”, domando. “Aspettiamo”. E mentre gli chiedo “che cosa?” mi rendo conto di essere in una situazione talmente balorda che fa concorrenza ad una pièce di teatro dell’assurdo.
Teklit non mi risponde “Aspettiamo Godot”, ma allarga le braccia. È uno dei 600 immigrati che in questi giorni stazionano a Roma, vicino al centro di accoglienza della comunità etiope e eritrea.
Il centro Baobab, che come il gigantesco albero africano sta dando riparo a questa massa di uomini sbarcati in Sicilia, stipati sui
Sotto l’insegna pubblicitaria di un ristorante che poteva chiamarsi in molti nomi, ma che si chiama “Le crociate”, con tanto di cavaliere armato disegnato, staziona un altro gruppetto di ragazzi. Sono buttati per terra, alcuni senza scarpe. Qualcuno stringe a sé una piccola borsa, uno zainetto, da uno un po’ aperto, sbuca una camicia a quadretti azzurri e beige. Il ragazzo che lo ha appoggiato a terra lo chiude e se lo porta al petto: ha l’aria di essere roba piuttosto preziosa, quello zainetto nero. Chiedo a Teklit dove sia il suo e mi fa cenno che lui non ne ha. Allarga le braccia, sorride. E a me si stringe il cuore, di fronte a lui e a tutta questa gente scaricata qua, con la promessa dio sa di che cosa.
Dormicchiano, parlottano, qualcuno ha in mano un cellulare, passeggiano su e giù. Tre vecchiette romane passano lì vicino, li guardano. E non si può non guardarli. “Sono tanti, tanti”, sospira la ragazza alla cassa del bar. “E questo ancora non è niente”, aggiunge lapidario il barista. E allarga le braccia anche lui. Poco più in là, proprio di fronte al suo bar così curato, un odore insopportabile di urina e immondizia. “Roba da non credere” borbotta un netturbino.
Solo qualche volontario e loro: centinaia e centinaia di persone. Una marea di uomini, donne e bambini africani. Uomini soprattutto. “Dove sono le vostre mamme, le vostre sorelle, le vostre mogli?”. Domando. “Sono rimaste a casa”. “Le avete lasciate là?” domando a una ragazzetto che mi ha appena spiegato che in Eritrea “non c’è libertà”. “Sì” risponde candido. E viva la sincerità.
“Nessuno vuole stare in Italia” precisa un ragazzo con la faccia simpatica che mi dice di chiamarsi “Milion” – un nome un programma – “qua non c’è lavoro, non c’è niente per noi. Io aspetto i soldi dalla mia famiglia e poi voglio andare in Germania”. Ah ecco.
“Ma non ti hanno detto che è difficile andarci?” gli chiedo pensando alle frontiere chiuse, alla polizia austriaca che li rimanda indietro a frotte e a Shengen andato a farsi benedire, “Ci sono dei confini”. Lui mi guarda incuriosito. Credo stia pensando che sono una povera scema. “Tutto è difficile”. E in effetti, di fronte all’Africa che ha attraversato, una tendopoli al Brennero ha pure un certo fascino.
Di sicuro più del posto in cui stanno adesso. Un po’ nell’aiuola di una strada, un po’ sul marciapiede, un po’ nel cortile del centro Baobab. Oggi, nonostante conservi qualcosa di quello che qualche settimana fa poteva essere un ambiente caldo e curato, pare un girone dantesco.
Di tanto in tanto arriva qualche famiglia italiana portando pacchi di pasta e biscotti. Alcuni sembrano i re magi alla grotta: in fila indiana, mamma e papà davanti, bambini dietro (è evidente che vogliono insegnare ai figli ad essere buoni col prossimo più sfortunato ma uguale a noi). Tutti si rivolgo a me scambiandomi per la responsabile del centro.
Una ragazza sui 25 anni con dei pantaloni svolazzanti che si inzuppano subito nella pozzanghera all’ingresso mi dice che vorrebbe aiutare, rendersi
Poi entra lei, Alice nel Paese delle Meraviglie. Occhi celesti, capelli biondo bambola, pelle diafana. È una giornalista di un’importante radio nazionale. Si guarda intorno, evidentemente sconvolta. “È una situazione drammatica,- sussurra sotto shock- sono tantissimi. Ho letto che anche al nord c’è il caos”. Ecco, brava: Alice alla scoperta del “paese reale”. Restiamo vicine. Dall’alto
Spezza l’incantesimo il ragazzo con le pustole sulle gambe. Quando si alza e viene verso di noi, stabilisco che la mia ipocondria ha appena vinto e trascino Alice fuori con me.
Mi allontano pensando ad Alice. Il momento in cui vieni travolto dalla realtà è sempre sconvolgente.
Ma tant’è. A due passi da lì c’è Via della Lega Lombarda. Su un terrazzo al terzo piano c’è un tricolore che sventola piano. Fa quasi tenerezza. È logoro e sbiadito, ma non così tanto, in effetti, da essere scambiato per una bandiera bianca.
Sofia Bassi
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Ottimo reportage