Roma, 20 apr – Pubblichiamo qui, su permesso dell’autore Flavio Ferraro, il capitolo terzo del saggio La malvagità del bene. Il progressismo e la parodia della Tradizione, Irfan edizioni, San Demetrio Corone (CS) 2019.
La cosa più stupefacente è che coloro i quali aderiscono senza riserve ai dogmi dell’ideologia progressista − nell’ingenua convinzione che essa si erga a difesa delle diversità e delle libertà individuali − non si accorgano come essa miri in realtà alla sistematica distruzione di tutte le identità e le differenze, di tutto ciò che conserva un aspetto qualitativo capace di sfuggire all’omologazione mercantilista. Quello a cui tende la visione globalista è la creazione di una società in cui l’alterità sia scomparsa, dove dappertutto si ritrovi il medesimo, l’uguale, l’identico; una sorta di tirannia dell’uniforme dove, come in un deserto, ciò che è diverso stagli nettamente i suoi contorni e dichiari, con la sua semplice presenza, la sua natura irriducibile a questo sfondo omogeneo: ed è così che l’Altro scompare. Byung-Chul Han parla giustamente di «terrore dell’Uguale». Scrive il filosofo sud-coreano:
Si va dovunque senza fare mai esperienza. Si prende atto di tutto senza mai giungere a una conoscenza. Si ammassano informazioni e dati senza mai giungere a un sapere. Si bramano esperienze vissute ed emozioni eccitanti in cui però si resta sempre uguali. Si accumulano amici e follower senza mai incontrare veramente l’Altro.1
Elogio del confine
L’Altro è ciò che interrompe l’indifferenziato: è il confine, il limite, il discrimine. E come la lontananza è la condizione necessaria di ogni dialogo, così ogni tendere, ogni muovere incontro all’Altro presuppone una distanza da attraversare; il confine è ciò che separa, ma è allo stesso tempo ciò che unisce: è a partire da una soglia che noi andiamo incontro all’Altro. Senza confini l’alterità scompare, senza distanze il dialogo diviene afasia. Oggi il potere ci vuole muti e soli, ed è per questo che in maniera ossessiva ci invita ad abbattere i muri, ad annullare i confini, a dissolvere le identità. Le civiltà tradizionali, al contrario, consideravano i confini sacri e inviolabili: è Romolo, colui che tracciò i confini, a fondare la Città per antonomasia. Ed è proprio nella religione romana che troviamo Terminus, la divinità protettrice dei confini; quando sul Campidoglio, come riporta Ovidio (Fasti, II, 667-670), fu eretto il tempio di Giove Ottimo Massimo, tutte le divinità che prima erano venerate sul colle fuggirono, lasciando il posto a Giove: tutte tranne Terminus («Terminus, ut veteres memorant, invictus in aede/Restitit et magno cum Iove templa tenet»).
Questa divinità era rappresentata da cippi di pietra che segnavano il confine, e chiunque, ad esempio nell’arare un campo, avesse spostato o fatto cadere questi cippi era maledetto, tanto che qualsiasi persona era autorizzata ad ucciderlo. La pietra che simboleggiava Terminus era collocata nella cella centrale del tempio capitolino di Giove, perché essa era allo stesso tempo un’immagine dell’Axis Mundi, la Colonna cosmica che secondo una dottrina universale separa e al contempo unisce il Cielo e la Terra, e da cui dipende in definitiva l’ordine e l’esistenza stessa dell’universo. Rimuovere i confini, che sono il riflesso nell’ambito corporeo di questo Confine universale e pneumatico, significa far precipitare il mondo nel disordine, nel caos dell’indifferenziato; poiché in fondo è grazie a questo limite, a questa linea di demarcazione, che gli esseri e le cose esistono: il confine distingue la luce dall’ombra, il cielo dalla terra, il maschile dal femminile. L’uomo stesso, come insegna l’esoterismo islamico, è la «barriera» (barzaḫ) che separa l’universo dal Vero, il finito dall’Infinito, poiché, come dice Dante,
l’uomo solo fra tutti gli esseri occupa il mezzo tra le cose corruttibili e le incorruttibili; perciò i filosofi lo paragonano giustamente all’orizzonte, che è a mezzo tra i due emisferi (De Monarchia, III, 16, 3).2
L’uniformizzazione del mondo
Soltanto la civiltà contemporanea ignora la sacralità del limite: il potere mondialista vuole che tutto sconfini, e ci invita senza posa ad annullare i confini, siano essi esteriori o interiori. Ma eliminare i confini, spogliando gli esseri delle loro qualità essenziali, significa trasformarli in oggetti; significa, in definitiva, privarli del loro fondamento ontologico, dissolverli in un pulviscolo, in una sabbia indistinta, molecolare. L’uniformizzazione del mondo conduce alla dissoluzione di tutte le cose, della quale la virtualizzazione è solamente uno dei tanti segni. E non potrebbe essere diversamente poiché, man mano che ci si allontana dal polo essenziale, spirituale e qualitativo della manifestazione, il movimento conduce inevitabilmente verso la molteplicità e il disordine, e cioè verso il polo sostanziale e inferiore, regno della quantità pura (anche se quest’ultima, trovandosi al di sotto di qualsiasi esistenza manifestata, fosse anche la più rudimentale, non può mai essere completamente raggiunta). Questo movimento, tuttavia, per proseguire nel suo sviluppo discendente deve, per così dire, trasmutarsi. E qui tocchiamo una questione che rende necessarie alcune precisazioni, al fine di mostrare chiaramente che cosa si nasconda nel fondo dell’ideologia progressista, e quale sia lo scopo ultimo che essa si propone; e per farlo dovremo riferirci a un insegnamento che appartiene all’ambito della metafisica, e che cercheremo di semplificare al massimo per evitare al lettore non avvezzo a questi temi delle lunghe quanto inutili complicazioni; e intendiamo affrontare tale questione nella formulazione che essa riceve nella dottrina indù.
Purusha e Prakriti, l’unità del principio divino
Secondo il Vedānta, affinché la manifestazione cosmica si produca occorre l’intervento di due princìpi, i quali rappresentano la prima di tutte le dualità cosmiche; questi due princìpi costituiscono la polarizzazione dell’Essere Universale (Dio o la Personalità divina), il quale è all’origine della manifestazione stessa e costituisce a sua volta la determinazione del Principio Supremo: si tratta insomma di quell’aspetto dell’Assoluto (Brahma) che si trova in rapporto con la manifestazione. Questi due princìpi, denominati Purusha e Prakriti, entrando in correlazione tra loro producono lo sviluppo di ogni stato manifestato, e nel caso dell’uomo la sua manifestazione nell’indefinita molteplicità dei gradi dell’esistenza; non dimentichiamo tuttavia che questi due poli si presentano come contrari solamente nel nostro stato di esistenza – il quale costituisce solo uno degli indefiniti gradi della manifestazione universale – poiché in divinis gli opposti coincidono e tutte le apparenti dualità, in realtà complementari, si risolvono nella suprema Unità del Principio divino.
Purusha e Prakriti, che costituiscono rispettivamente il principio attivo e passivo della manifestazione, possono essere definiti come l’essenza e la sostanza universali; o anche, se si preferisce, l’unità e la molteplicità, oppure l’atto e la potenza, per utilizzare il linguaggio aristotelico. Ora, questi due princìpi universali, senza i quali nessuna manifestazione sarebbe possibile, appaiono nel nostro mondo proprio sotto l’aspetto della qualità e della quantità, le quali rappresentano, in quel particolare ambito dell’esistenza in cui si situa l’individualità umana, il corrispettivo a livello microcosmico di ciò che l’essenza e la sostanza universali costituiscono a livello macrocosmico.
Il Kali Yuga
Possiamo dunque affermare che lo sviluppo della manifestazione procede dall’essenza alla sostanza, dalla qualità alla quantità, o dal superiore all’inferiore; ciò d’altronde è inevitabile poiché lo sviluppo della manifestazione comporta un allontanamento sempre maggiore dal principio da cui essa procede, e dunque essa non può che compiersi in senso discendente, come una sorta di materializzazione progressiva. E noi ora ci troviamo esattamente nella fase finale del Kali Yuga, l’Età oscura, dunque in quella fase dello sviluppo ciclico più vicina alla quantità o alla materia (naturalmente non si tratta della materia dei moderni, la cui nozione è del tutto assente nella metafisica tradizionale, ma della materia nel senso della Scolastica, identica a ciò che Aristotele definisce ὕλη: il supporto passivo o potenziale della manifestazione, esattamente come Prakriti). Il Kali Yuga, secondo la dottrina indù, costituisce l’ultima delle quattro età in cui si divide un Manvantara: queste quattro età costituiscono altrettante tappe di un oscuramento progressivo della spiritualità delle origini e di conseguenza, man mano che si procede nello sviluppo ciclico, ci si avvicina sempre di più al polo inferiore della manifestazione.
La quantità come principio divisivo
A questo punto, dopo questa necessaria digressione, non sarà difficile comprendere come tutto ciò che possiede un aspetto qualitativo appartiene al polo superiore dell’esistenza, mentre la quantità appartiene al polo inferiore; e dal momento che la quantità è in un certo senso il principio stesso della separatività in quanto, come abbiamo visto, essa esprime nel nostro mondo quel principio che costituisce propriamente l’ambito della molteplicità, gli esseri saranno tanto più separati quanto più la quantità dominerà in loro. La quantità può soltanto separare, non unire; spogliare gli esseri delle loro qualità significa appunto uniformarli, e l’uniformità è esattamente l’inverso dell’unità, così come la separazione è l’opposto della distinzione. Ma c’è di più: come spiega Guénon,
in virtù della legge di analogia, il punto più basso è come un riflesso oscuro o un’immagine invertita del punto più alto; ne deriva la conseguenza, paradossale solo in apparenza, che l’assenza più completa di qualsiasi principio implica una specie di “contraffazione” del principio stesso, espressa da taluni in forma teologica con l’affermazione: «Satana è la scimmia di Dio».3
È come se all’approssimarsi della fine del ciclo, che al tempo stesso rappresenta un avvicinamento all’inizio di un nuovo Manvantara, la tendenza discendente verso il polo inferiore sia costretta, per proseguire la sua corsa verso il basso, a “precipitare”, nel senso alchemico del termine; la fase finale del Kali Yuga è dunque un’immagine rovesciata del Satya Yuga, l’Età della Verità (o dell’oro, secondo la tradizione greco-romana), la quale rappresenta il punto di massima vicinanza all’unità principiale, all’origine del presente ciclo; e dal momento che l’inizio e la fine sono identici («Com’è in alto così è in basso», afferma la Tavola Smeraldina) ma in senso inverso, la fine del ciclo non costituirà tanto una negazione della spiritualità, quanto piuttosto un’immagine capovolta di essa, un’immagine letteralmente satanica (Satana è “caduto” a testa in giù).4
Flavio Ferraro
Note
1 B-C. Han, L’espulsione dell’Altro, Milano 2017, p. 9.
2 Dante, De Monarchia, a cura di D. Quaglioni, Milano 2015, pp.495-497.
3 R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Milano 1982, p. 13.
4 La caduta dell’angelo ribelle − come del resto, a un livello di riferimento inferiore, quella di Adamo − simboleggia la fase finale del processo cosmogonico. L’Assoluto, in quanto Infinito, si effonde poiché Egli, essendo Amore, non può fare a meno di creare; ma irradiandosi si allontana da Se stesso, si proietta al di fuori di Sé, divenendo in questo modo la relatività (e cioè la manifestazione nella sua totalità): in termini plotiniani, si avventura nella materia, nel regno della molteplicità. La caduta di Lucifero, in ultima analisi, esprime questo allontanamento, questo movimento discendente attraverso cui l’Infinito diviene finito, l’Uno si fa molteplice: il suo peccato, come quello di Adamo, è l’illusione della separatività, il principium individuationis.