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Antonio Gramsci, un compagno stimato da Mussolini

by Marco Battistini
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Roma, 27 apr – Filosofo marxista, fondatore del Partito Comunista e teorizzatore di quella egemonia culturale che nel secondo dopoguerra ha permesso alla sinistra di occupare praticamente ogni ganglio del sistema-Italia, Antonio Gramsci moriva il 27 aprile 1937  in una costosissima clinica privata della capitale.

Dal carcere alle cliniche private

Sì, avete letto bene. Il pensatore sardo, ridotto a santino dei comunisti di ieri e di oggi – dal rosso sovietico all’arcobaleno del capitale – non passò a miglior vita tra le privazioni di un carcere fascista. Anzi, come ci ricorda un articolo del Corriere della Sera di qualche anno fa, nel periodo di detenzione Antonio Gramsci poteva disporre di una cella personale da lui definita “molto grande, forse più grande di ognuna delle stanze di casa”. L’anarchico Ezio Taddei arriverà addirittura a sostenere che gli sarebbe stato concesso di “sgranocchiare amaretti e pasticcini”. Pare che anche gli altri carcerati comunisti nutrissero una certa ostilità nei confronti di questo compagno – per così dire – privilegiato.

Come sappiamo il giornalista continuò comunque a scrivere e – su concessione diretta del Duce – leggere libri diversi da quelli della biblioteca penitenziaria. Un altro fatto abbastanza strano per un detenuto politico. Arrestato nel novembre ‘26 per attentato alla sicurezza dello Stato – ecco, anche in democrazia non proprio un reato qualunque – dalla fine del 1933 il cagionevole fisico del nativo di Ales trovò sollievo al Cusumano di Formia. Per poi trasferirsi dopo un biennio al Quisisana, casa di cura della borghesia capitolina. Dove la Questura non poté andare oltre a blandi controlli.

Antonio Gramsci, un lettore d’eccezione

Sulle vicende di Antonio Gramsci un paio di falsi storici sono riconducibili alle parole di Palmiro Togliatti. Ovvero la presunta e mai dimostrata affermazione del pubblico ministero “per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare” e la storia – per forza di cose impossibile – dei famosi quaderni gramsciani trafugati direttamente dal carcere la sera della morte. Al contrario, uscirono senza problemi dalle cliniche romane (dove venne redatta almeno un terzo della raccolta). Il futuro firmatario dell’Appello ai fratelli in camicia nera – documento redatto, guarda caso, nel periodo del grande consenso fascista – antagonista interno del compagno protagonista di queste righe, nel dopoguerra sfrutterà a proprio favore il lavoro culturale dell’intellettuale stimato da Benito Mussolini.

“Un cervello indubbiamente potente” sentenziò il Duce alla Camera. Come rivelato a Yvon De Begnac, lo statista romagnolo ben conosceva il contenuto di quelle pagine. “Leggo i quaderni d’appunti dei condannati dal tribunale speciale. E mi domando: che cosa la nostra cultura reclama di diverso da ciò che il fascismo propone ai rivoluzionari di buona volontà?” disse l’allora primo ministro riferendosi senza dubbio alcuno al pensatore comunista.

Mussolini e “quel cervello indubbiamente potente”

Mussolini avrebbe potuto tranquillamente ordinare il sequestro dei quaderni, ma non lo fece. Ancora con le parole del fondatore del Popolo d’Italia, dalle stesse pagine del quotidiano: “i comunisti hanno tentato di farne una specie di ‘santo’ del comunismo, una vittima del fascismo, mentre la realtà è che Gramsci, dopo un breve periodo di permanenza in reclusorio, ebbe la concessione di vivere in cliniche semiprivate o completamente private. Ed è morto di malattia, non di piombo, come succede ai generali, ai diplomatici, ai gerarchi comunisti in Russia, quando dissentono – anche un poco – da Stalin e come sarebbe accaduto a Gramsci stesso se fosse andato a Mosca”. Quest’ultimo ruppe infatti nel 1926 con Togliatti proprio per opposte valutazioni sulla controversa figura del politico di origini georgiane.

Con i primi venti della Grande Guerra Benito Mussolini e Antonio Gramsci furono tra i pochi a coglierne, fin da subito, la portata epocale. Conosciamo tanto su ciò che li ha divisi, molto meno sui possibili punti di convergenza. A partire dal fratello Mario, sconosciuto ai più: partecipò alla Marcia su Roma e partì volontario in Abissinia. Indagare in questa direzione mostrerebbe un’importante sfaccettatura filosofica e culturale che mal si concilierebbe con il noioso ritornello del male assoluto propinato da decenni al grande pubblico. Sarebbe un’ulteriore crepa nel già logoro muro dell’antifascismo. E questo l’intellighenzia orfana del comunismo proprio non può permetterselo.

Marco Battistini

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