Roma, 19 giu – Ci sono nomi che sopravvivono al tempo nonostante la loro opera non abbia granchĂ© valore. Dotati, eppure, dell’unico requisito che ne fa perpetuare la memoria nel procedere disastroso della societĂ  e della storia. Poi ci sono quei nomi dal valore prezioso, che la societĂ  affossa nella dimenticanza storica poichĂ© non in grado di esibire i medesimi requisiti. Requisiti che rispondono, nel Paese nostro, alla tessera dell’establishment che da settant’anni tiene in scacco il monopolio del patrimonio intellettuale. E che pontifica e ammaestra e odia e banna. Il caso di Attilio Mordini è l’emblema di quanto dico. Filologo, linguista, storico, teologo, filosofo, sentenziato a damnatio memoriae per l’aver svezzato una nidiata di giovani che avrebbero rappresentato il pensiero e la cultura di destra. “Crediamo che l’incontro con Attilio sia stato il piĂą importante della nostra vita”, ricordava recentemente lo storico Franco Cardini. “Ci fornì le chiavi essenziali per una critica serrata, non isterica nĂ© preconcetta, della modernitĂ . Mordini fu per noi un fratello maggiore e una guida spirituale: attorno a lui costituimmo, per molti versi, una vera comunitĂ , una torre d’avorio”.

Attilio Mordini, vent’anni di fuoco

Nasce nel 1923, fiorentino, figlio di colonnello, barone di Selva. Rigoroso per natura e animoso per identitĂ  regionale, nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943, non ancora costituita la Rsi, indossa l’uniforme della IV Panzer-Division tedesca. E’ motivato, da cattolico ardente, a domare quel “cavallo rosso” di cui un giorno avrebbe scritto Eugenio Corti, a battersi contro il bolscevismo. Di stanza sul fronte ucraino, viene evacuato a seguito del congelamento di un piede. Rientra in patria ed è addetto all’Ufficio stampa nella Guardia Nazionale Repubblicana. Ripiega a nord con tutta la linea del fronte, e nella primavera ’45 gli americani lo fanno prigioniero. Rilasciato, deve darsi subito alla macchia. Finisce a Roma, ospitato dai gesuiti, pronti ad accogliere i ricercati politici.

Frequentando l’UniversitĂ  Gregoriana, s’inquadra nel Terz’Ordine francescano, scelta di chi, sconfitto in guerra con l’esercito regolare, ha deciso di portare lo scontro sul piano trascendente. A Firenze, a seguito di delazione è arrestato. Stessa sorte del conterraneo Giorgio Albertazzi e di molti, molti altri. La cieca epurazione antifascista lo destina, senza processo alcuno, al carcere delle Murate da dove, a causa delle condizioni di tortura cui è sottoposto, esce coi postumi di una tubercolosi malamente sanata. Alla FacoltĂ  di Magistero conquista una laurea con lode in Letteratura tedesca che, unitamente alla fascinazione per il mondo germanico, gli otterrĂ  il lettorato di italiano all’UniversitĂ  di Kiel. Collabora con Il Ghibellino e Il Secolo d’Italia, scrive per L’Ultima di Giovanni Papini e Adolfo Oxilia, L’Alfiere di Silvio Vitale, Adveniat Regnum di Fausto Belfiori, e infine Antaios di Ernst JĂĽnger e Mircea Eliade.

Fra continue sofferenze e reiterati ricoveri per la salute compromessa, persevera nell’indefessa attivitĂ  di animatore intellettuale. Non s’è bevuto la vulgata della migliore delle societĂ  possibili, così come il Dopoguerra è impacchettato e venduto a un Occidente libero e pacifico solo per modo di dire. Il peggio non sarĂ  affatto la guerra, non sarĂ  la distruzione atomica, ma questo progresso, questa pseudociviltĂ  trascinata all’indefinito. Dialetticamente elegante, poi di getto gergale e sboccato se necessario, si definisce “fascistello di sagrestia”, e nel 1963 accetta una candidatura alle elezioni nazionali nelle liste del Movimento Sociale Italiano, che giĂ  conosce segnata, lì nel baluardo rosso di Toscana. Schivo ai clamori della vita pubblica ma occhio sensibile ai mutamenti in atto col cambio generazionale, può denunciare come “si è andata sempre piĂą manifestando negli ambienti del laicato cattolico e, soprattutto nelle associazioni giovanili, una grave carenza di virilitĂ ”.

Il maestro segreto

Di qui la scelta di fondare un cenacolo. E attrarre una schiera di studenti, spiritualmente sensibili ed alieni alle blandizie di quella civiltĂ  dei consumi impiantata in terra europea dagli Usa, cui però l’esoterismo evoliano non ha saputo dare le risposte adeguate. Fra loro Franco Cardini, Pino Tosca, Giovanni Cantoni, Fausto Belfiori, Paolo Caucci, Primo Siena. Gli incontri si tengono di giovedì. I ragazzi lo chiamano “giovedì del reazionario”. Il posto, una cappella sconsacrata accanto al Teatro della Pergola, messa a disposizione dall’amico ed estimatore il conte Neri Capponi. Spazio che, per scherzo della sorte, piĂą avanti finirĂ  occupato dalla ComunitĂ  di Sant’Egidio. Talora, il maestro segreto ospita i suoi accoliti nell’intimitĂ  della casa di famiglia, in via San Gallo.

“Le lunghe chiacchierate fino a tardi, la lettura comune di saggi e di testi alternata spesso con ampie soste di meditazione e anche di preghiera”, dentro quello studio che, per chi vi entrò, pare simile “alla cella di un monaco studioso e mistico del Medioevo”. Definizione mai piĂą gradita per un membro dell’Ordine di quel Francesco che fu cappellano militare alla V Crociata, non certo il poverello di Assisi eletto a sponsor, suo malgrado, del relativismo globalista in stile New World Order. NĂ© mai definizione piĂą azzeccata per chi, come Attilio Mordini, guardava al Medioevo quale architrave capace di tener in piedi, coi suoi ideali filosofici e religiosi, le sue trame commerciali e le sue istituzioni, le sue cattedrali e le sue universitĂ , la costruzione dell’Europa piĂą forte, piĂą sana, piĂą vera. Antitesi di quella storiografia in bella mostra sugli scaffali delle Feltrinelli, che poi la bocca del liberal-radical-sciocco di turno rilancia con la tiritera dei secoli bui, dell’oppressione, della barbarie.

Nella decade in cui, sotto piĂą profili, si prepara il punto di svolta (o meglio di rivolta) che sarĂ  il ’68, è l’intellettuale laico di riferimento, per una fetta d’Italia contraria all’“aggiornamento” del Concilio Vaticano II su quasi duemila anni di cattolicitĂ  romana. Scrive saggi che spaziano dall’analisi linguistica alla teologia, dalla critica cinematografica all’antropologia culturale, la maggior parte postumi. Il segno della carne, Dal mito al materialismo, Giardini d’Oriente e d’Occidente, VeritĂ  del linguaggio, fino al manoscritto ritrovato de Il mistero del Regno.

Una, però, l’opera che piĂą lo rappresenta. “Se la storia non avesse alcun significato, l’intera umanitĂ , la presenza dell’uomo nel mondo, si ridurrebbe a un assurdo e vano agitarsi di larve; ma se la storia, come crediamo, ha un senso, allora è essa medesima linguaggio, è parola”, questo l’incipit de Il tempio del Cristianesimo. Testo conciso, penetrante, sguardo dietro le quinte della storia. Ovvero il testamento intellettuale e spirituale di un duro e puro che, non casualmente, ne firma la dedica “A Carlo d’Asburgo, Imperatore Santo”: ultimo sovrano della casa d’Austria, che preferì dire addio al regno, in esilio, pur di piegarsi al compromesso politico e morale.

Una sorta di anamnesi

Posto che la storia sia un corpo vivente, e che le sue diverse ère rappresentino altrettante etĂ  della crescita, lo studio di Mordini è una sorta di anamnesi, un’indagine metastorica e metapolitica. Si traccia, così, l’iter della CiviltĂ  Occidentale – le sue vette e le sue cadute – dalla nascita di Cristo al presente post bellico. Consapevole, per un verso, che il corso storico non sfugge un solo istante al controllo dell’Onnipotente, ed anzi si fa strumento del salvifico piano divino perfino nei suoi anfratti piĂą tragici. Realista, per un altro, di quanto il libero pensiero che ha forgiato la modernitĂ , celi “la rivolta organizzata delle potenze infere contro l’unitĂ , l’autoritĂ  e l’ordine”.
RealtĂ  immanente, rivelazione mistica, visione profetica, quelle tratteggiate da Mordini nell’anno di pubblicazione, che si scrive 1963, ma altro non è se non la punta d’iceberg del nostro quotidiano. Dove, a fronte del gioco di prestigio che gli stolti chiamano democrazia, “non è piĂą la violenza a imporre le opinioni e a condizionare l’uomo, ma la sopraffazione psicologica”. E dove – punto fragile di una rete che imbriglia – “la propaganda di tale schiavitĂą non fa presa su quanti hanno respinto certe abitudini del mondo moderno per servirsi solo di alcuni benefici materiali; non fa presa su coloro che non hanno accettato le insulse manifestazioni della pseudo-arte e dell’inquietudine moderna, salvando, nell’autoeducazione tradizionale, la propria personalitĂ ”. Ne viene da sĂ© uno scenario che solo parzialmente ricorda la devastazione descritta ne Gli uomini e le rovine evoliano. PoichĂ©, dietro i fumi dei furiosi accadimenti degli ultimi secoli, si staglia quella battaglia sovrumana che il neo-paganesimo di Julius Evola non poteva intravedere. E’ lo scontro tra forze angeliche. Quelle infere, ribelli, e quelle celesti, fedeli. Ed è certamente questa consapevolezza accecante, questa chiamata alla milizia permanente, a fargli dire ciò che suonerĂ  da provocazione: “Se portare Cristo nel mondo è portare la pace tra gli uomini, la guerra è, pur tuttavia, l’ultima e piĂą certa garanzia di spiritualitĂ ”

A fargli preconizzare che nei tempi ultimi, quando l’apostasia e l’indifferenza del mondo sarĂ  quasi generale, aumenteranno provvidenzialmente le guerre e i rumori di guerra. A offrirgli occasione, ancora nel solco biblico, per definire la Tradizione come primordiale “rimedio”, il quale “nel momento della condanna all’uscita dall’Eden, il Creatore consegna all’uomo”. Discorso inafferrabile al di fuori dei lumi della fede, ma che, tradotto in vita pratica, “significa oggi esser disposti a tutto, significa preferire mille volte la distruzione quasi totale dell’umanitĂ  piuttosto che tollerare l’ateismo e il laicismo del mondo moderno; solo che poche coppie del genere umano si salvino sulla terra. Saranno certo quelli gli uomini migliori, piĂą belli e piĂą forti”. Muore a 43 anni. Un corpo usurato dalla malattia, una mente allo zenit della limpidezza, uno spirito al golgota del sacrificio. E’ il 4 ottobre 1966, ricorrenza del patrono d’Italia sotto la cui ispirazione aveva posto la sua vita. Troppo presto per guardar in volto quell’appendice risolutrice della vicenda umana, che forse spetterĂ  a noi affrontare.

Alessandro Staderini BusĂ 

 

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