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«Azzurri bravi e coesi, ma io non tifo più»: Massimo Fini racconta la sua metafora del calcio

by Fabrizio Vincenti
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Massimo Fini azzurri

Non ha tifato Italia, perché la vorrebbe migliore. Più pura. Più onesta. Come forse lo era sino a qualche decennio fa. Più che antitaliano, arcitaliano, come lo è chi vorrebbe dal suo Paese la perfezione dei santi. Del resto, Massimo Fini, una delle penne più lucide e anticonformiste del panorama giornalistico italiano, ha dedicato persino un libro al calcio che fu, alla ricostruzione reazionaria del calcio di un tempo. A quel calcio che non c’è più, metafora di una società che è radicalmente cambiata, divenuta ipertecnologica, frenetica, multietnica. Disumana, verrebbe da sintetizzare. Massimo Fini si è visto i campionati di Europa di calcio da spettatore (apparentemente) neutrale.

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di agosto 2021

Massimo Fini, perché non ha tifato per l’Italia agli Europei?

«Per una ragione semplice: prevedevo questa euforia nazionale di cui si sarebbero appropriati in molti, a partire dal presidente del Consiglio, ma questo è il male minore: il peggio è che nasconde il malcostume italiano».

La finale l’ha vista?

«C’è una tradizione familiare: io e mio figlio vediamo insieme le finali di Champions, del Mondiale e dell’Europeo. Dunque l’ho vista ma, pur avendo visto gli azzurri esprimere un calcio migliore, l’ho seguita in modo abbastanza neutro, anche se gli inglesi non è che mi rimangano simpatici. Diciamo che, ci fosse stata la Danimarca in finale, avrei tifato per loro».

Gli azzurri meglio dell’Italia intesa come Paese?

«La Nazionale ha giocato bene, in modo coeso, qualità che non corrispondono al nostro Paese, diciamo che sono stati meglio di un Paese che litiga su tutto, basti pensare alla vicenda del ddl Zan. Giorgio Gaber diceva che si scannano in Parlamento e poi non cambia nulla».

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Si sente italiano o no?

«Io non mi sento italiano, o almeno italiano degli ultimi 30 anni: ho un’età che mi ha consentito di vedere un’altra Italia e altri italiani, che avevano valori condivisi, a partire da quello dell’onestà; un Paese dove tra i contadini bastava una stretta di mano per mantenere la parola e dove gli stessi operai avevano un’etica. Guardi, la prima riforma di cui avrebbe bisogno l’Italia sarebbe quella sulla buona educazione».

In fin dei conti Draghi non si è impossessato della vittoria…

«È vero, sia Draghi che Mattarella non si sono lasciati andare e hanno festeggiato con stile, sarebbe meglio fosse lo stile dell’Italia. Aggiungo che non toglie nulla al fatto che siamo l’unico Paese governato da un banchiere».

Gli inglesi non l’hanno presa benissimo, a proposito di stile.

«Si sono comportati malissimo, dai fischi all’inno nazionale alle medaglie immediatamente levate dal collo dei giocatori, quasi gettate via, senza dimenticare che si è vista anche la caduta di stile dei reali che hanno abbandonato lo stadio appena finita la gara, senza attendere la premiazione. E pensare che, a poca distanza sul campo d’erba di Wimbledon, si è assistito a ben altro spettacolo e a un’altra Gran Bretagna. In ogni caso, loro restano un popolo, lo sapeva benissimo Mussolini che, con un’operazione giusta, ha provato a dare una coscienza nazionale all’Italia e che definiva l’Inghilterra “Perfida Albione”, lo diceva perché sapeva che erano un popolo».

La vittoria, al di là di una certa retorica patriottarda, è stata comunque una manifestazione di amor patrio che in tanti tentano di demolire: tentano di imporre un mondo unico e poi si vedono i quindicenni con un tricolore in mano.

«È il tema dell’identità che riaffiora: un mondo sempre più omologato finisce per sentire la necessità delle identità, ma…

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