Roma, 3 lug – A pochi giorni dal sessantennale della morte (avvenuta il 1° luglio 1961) di Louis-Ferdinand Céline, pubblichiamo per gentile concessione del curatore Andrea Lombardi due estratti dal volume Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze (Bietti, 2018), tra cui spicca un ritratto che ne fece Benito Mussolini.
Céline e Mussolini[1]
di Benito Mussolini
Benito Mussolini incontrò personalmente il dottor Louis Destouches quando la delegazione di medici borsisti sudamericani da lui guidata in una missione di studio sulle malattie epidemiche, finanziata dalla fondazione Rockefeller operante tra Cuba, il Canada, gli Stati Uniti d’America e l’Europa, toccò anche l’Italia, essendo ricevuta a Roma il 3 agosto 1925 dal direttore generale della sanità pubblica al ministero dell’Interno, da Mussolini e dal presidente del consiglio, e compiendo visite alle bonifiche idrauliche di Ferrara e Ravenna, a Nettuno e nelle paludi pontine, e alle strutture sanitarie e antimalariche di Ostia, Fiumicino e Grottaferrata tra la fine di luglio e la prima settimana dell’agosto 1925. Al ritorno, mettendo a frutto queste esperienze e i lavori sull’argomento del suo prozio Théodore Destouches, passato professore di farmacia alla scuola di medicina di Rennes nell’800, il dottor Louis Destouches pubblicherà il libro La Quinine in thérapeutique, tradotto in tre lingue tra le quali l’italiano (La Chinina in terapeutica, edito nel 1927). Céline e la sua opera compaiono più volte nelle conversazioni di Mussolini raccolte da Yvon De Begnac (1913-1983), giornalista, saggista e suo biografo.
Ho letto il volume di Céline, che mi avete portato della Francia. Voyage au bout de la nuit diventerà un classico di questo secolo. Céline, voi me lo confermate, è un ammiratore della rivoluzione. Il suo argot boulevardier è la lingua dei comunardi, che ho imparato leggendo Lissagaray, Malon, Vaillant. I fatti narrati da Céline sono quello che sono. Ma lo stile è, decisamente, rivoluzionario. Mi ha fatto sapere, attraverso Canudo, attraverso Antona Traversi, attraverso Antonio Aniante, che l’Europa di domani, quale che sia l’esito di una futura guerra mondiale, nella cui deflagrazione sarebbe bello non credere, sarà fascista. Mi ha fatto sapere a suo tempo, da Cerruti, che il testo del corsivo Il pericolo giallo da voi, Yvon, ripubblicato in La strada verso il popolo lo ha impressionato. Ha pregato Cerruti di comunicarmi che da oriente potrà venire la fine dell’Europa. Voi mi parlate sempre, dall’epoca del vostro ritorno dalla Francia, dello scrittore Céline. Ho letto quel pastone di argot di Voyage au bout de la nuit. Scrittura giacobina, insoddisfazione termidoriana, desiderio di ricostituzione dell’assolutismo di tipo anarchico, via precisa all’assolutismo di tipo zarista. Fatelo vivere a lungo, un tipo come Céline, e i posteri ne vedranno delle belle! Io non so se questo scrittore sia capace di amore. È una bomba armata a rancore. Ma che cosa mai gli ha fatto l’umanità! Non ha capito molto, di Nietzsche. Nulla ha compreso di Blanqui. Il tarlo Proudhon gli lavora nel cervello. Ma come fa, un personaggio come Céline, ad essere medico?
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«L’uomo bianco è morto a Stalingrado»
di Pierre Duverger
Pierre Duverger (1920-1992), attore e commediante in perenne ricerca di una parte, conobbe Céline a Saint-Malo nel 1943. Nacque così una profonda amicizia (Céline lo aiuterà a evitare l’STO, il Servizio di lavoro obbligatorio, e ad entrare nella Organizzazione Todt), che proseguì nel dopoguerra e negli anni dell’esilio céliniano a Meudon, tanto da essere uno dei quattro intimi, con Marcel Aymé, Robert Poulet e Jean Bonvilliers, a vegliare la salma di Céline prima del suo funerale. Duverger, che raccolse alcune tra le più significative conversazioni con Céline, come quella che presentiamo qui di seguito, contribuì a diffonderne le opere ristampando clandestinamente i suoi “pamphlet”, e fu autore con la sua Leica M3 di una straordinaria serie di 71 fotografie a colori ritraenti Céline a Meudon nel luglio 1960.
– Ci parli del dottor Destouches.
Pierre Duverger era stato, con Marcel Aymé, uno degli ultimi amici di Céline. Céline aveva dunque avuto degli amici.
– Non mi piace molto parlare di qualcuno che rimpiango. Ma non rispondervi sarebbe mancare alle leggi dell’ospitalità.
– Sono io che vi ho mancati. Non rispondetemi.
Duverger mi rispose appena dopo.
– Lo incontrai per la prima volta, iniziò, nel 1943. Fu a Saint-Malo, al mercato del pesce. Dei capelli lunghi. Ma non per snobismo, a quell’epoca! Un bel viso magro, marcato di grandi rughe, le rughe di un’uomo infelice. Indossava una curiosa veste, come non ne avevo mai viste, una veste che non si chiudeva! Si vedeva la cordicella che teneva su i pantaloni.
L’avevo già visto, ma non gli avevo parlato. Fu a Montmartre. Montmartre, la casa di entrambi. Dopo, quando lo conobbi meglio, mi mostrò una sua foto dove era irriconoscibile. In divisa da corazziere. Destouches, sissignore, era stato corazziere nel ’14. Non c’è nulla di straordinario che sia stato corazziere, mi direte, e che sarà stato mobilitato. Quello che è straordinario, invece, era la sua fierezza di esserlo stato. […]
A Saint-Malo abitava di fianco al Casinò. Ci andava tutti i giorni, o quasi. Mi raccontava delle cose, delle cose… Cose che spesso non capivo: “Il mondo se ne è partito – profetizzava – in delle guerre feroci, di più in più feroci. E mica ancora finite. Adesso, è la guerra civile tra Bianchi. Dopo, sarà la guerra tra razze… la vera, la definitiva”.
Oggi lo comprendo, Louis-Ferdinand. I visionari, i profeti, li si capisce solo dopo. […]
Céline aveva un cuore straordinario. Acquistava al mercato nero delle tessere annonarie, e le distribuiva a dei poveracci. Ma ciò l’intimidiva, l’essere buono. Smetteva di essere “vecchia Francia” e dissimulava la sua bontà dietro un tono burbero e anche dietro delle volgarità… raramente.
Non lo reincontrai che dopo Sigmaringen, dopo la Danimarca. I suoi anni da braccato, la sua detenzione avevano rovinato la sua carcassa. Era consumato. L’odio non la finiva più con lui, lo perseguitava. Lo vedeva dappertutto, anche dove non ve ne era. “Ho tentato di dire ai francesi di non andare di là, d’andare piuttosto di qua… Guardatemi. Il che stato m’hanno ridotto!”
Si ritirò nella sua solitudine con la sua compagna. I suoi amici, erano dei cani, dei gatti, degli uccelli. I suoi amici d’una volta, si erano fatti sempre più rari.
Medico, non esercitava più, o a malapena. Non aveva d’automobile. I clienti non venivano da lui.
Non lasciava quasi più casa sua. Dalla sua collina di Meudon, scrutava Parigi e, entrando in una sorta di trance, indicava da quale porta della città sarebbero entrati i cinesi, indicandola con sicurezza.
“La Rivoluzione, Duverger – ripeteva – noi la vediamo compiersi ogni giorno. La sola, la vera, è il bracciante negro che si monta la piccola servetta bretone. Tra qualche generazione, la Francia sarà completamente meticciata, e le nostre parole non vorranno più dire nulla. Che piaccia o no, l’uomo bianco è morto a Stalingrado”.
Vi ho parlato di Céline come di un “visionario”. Mi chiedo se io non abbia detto una scemata colossale. Il visionario è quello dalle percezioni extrasensoriali, una pastorella mistica, un papa in punto di morte, il vicario inquieto all’idea di essere presto faccia a faccia con Dio. Lui, era tutt’altra cosa. Non riceveva alcuna luce dall’alto, lui. Era lucido senza luce, senza aspettare la morte, senza temerla, spaventosamente lucido di questo mondo orrendo, come se avesse avuto un sesto senso che gli facesse percepire, meglio di chiunque altro, quello che c’era sotto all’apparenza delle cose.
Céline? La lucidità del nostro orrore.
[1] Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, il Mulino, Bologna 1990, p. 645.
1 commento
bellissimo viaggio al termine dei trollazzi del pd : uscita torvajanica o milano ztl : reietti balordi e bagordi di stato a stalkerizzare il popolo sovrano la prox revolucion deve essere sovanista dal basso