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Roma, 6 ago – Hiroshima, 6 agosto 1945, 8 del mattino. Tre solitari bombardieri americani B-29 si stanno avvicinando alla città nipponica nella cui baia, quasi 4 anni prima, era ormeggiata la corazzata Nagato sede del comando dell’ammiraglio Yamamoto durante l’attacco a Pearl Harbor. L’ironia della storia, voluta o meno: il primo, orrendo passo che condurrà al termine della guerra nel Pacifico viene fatto nello stesso posto dove era iniziata.
“Little boy”, ragazzino, era il nome della bomba a fissione che trasportava il B-29 che il pilota, Paul Tibbets, aveva chiamato come sua madre: “Enola Gay”. “La” bomba, non una bomba qualsiasi, ma una come non se ne erano mai viste in tutta la storia delle guerre: pochi chili di uranio (circa 64), in confronto alle bombe convenzionali fino ad allora usate che potevano arrivare anche a migliaia di chili di esplosivo, ma dalla potenza devastante, la potenza dell’atomo.
Il fuoco nucleare era stato già svelato nel deserto americano qualche settimana prima: il primo ordigno bellico che l’uomo abbia mai visto fu fatto detonare una mattina di luglio nei pressi della cittadina di Alamogordo, nel Nuovo Messico. Il presidente Truman era arrivato a Potsdam, dove l’indomani, 17 luglio, si sarebbe tenuta la conferenza che avrebbe dato l’assetto finale al mondo, diviso in sfere di influenza tra le due grandi potenze vincitrici, USA e URSS, quando ricevette un messaggio in codice: “I bambini sono nati felicemente”. Era il segnale che il primo ordigno atomico del mondo era detonato con successo.
Ore 8:15. Da un’altezza di quasi 10 mila metri, il B-29 di Tibbets sgancia la bomba. Gli altri due velivoli dello stesso tipo che volano di conserva fanno partire gli strumenti scientifici di cui sono pieni. Il cronometro conta 57 secondi di caduta libera, e ad un’altezza prefissata di 600 metri il “ragazzino” esplode con una potenza di 13 kilotoni, 13 mila tonnellate di TNT equivalenti in una volta sola, più o meno sopra il ponte a T che unisce le due metà della città giapponese: un obiettivo facile da traguardare per il bombardiere.
20 milioni di gradi centigradi al nucleo dell’esplosione, 300 mila gradi ad un chilometro di distanza, 80 mila persone, uomini, donne e bambini semplicemente scompaiono: 30 mila atomizzati dall’immenso calore della detonazione vengono risucchiati all’interno della palla di fuoco che risale nell’atmosfera insieme a detriti infiammati, polvere, e a tutto quello che i terribili venti dati dal risucchio strappano dalla terra. Non sono le radiazioni che uccidono quella mattina ad Hiroshima, quelle mieteranno vittime dopo, nelle ore e nel tempo a seguire: mesi, anni, in cui chi è stato esposto al fallout radioattivo della bomba si ammalerà di cancro, leucemia e altre malattie mortali.
Quantificare esattamente quanti moriranno negli anni successivi all’esplosione è difficile, ma il conteggio dei morti è solo una macabra statistica: l’uomo per la prima volta aveva un ordigno dalla potenza così devastante da poter distruggere la sua stessa civiltà. Ed è stato proprio in nome della civiltà americana che il primo di questi ordigni è stato sganciato su di una città, uccidendo in un giorno solo 40 volte le persone che perirono durante l’unico attacco nipponico su suolo americano: Pearl Harbor.
La democrazia nucleare era arrivata sul suolo nipponico, e dopo pochi giorni sarebbe tornata su di un’altra città, Nagasaki, causando altre decine di migliaia di vittime e spingendo il Giappone ad accettare la pax americana, che fu siglata un mese dopo sul ponte della corazzata Missouri ormeggiata nella baia di Tokyo.
Il Giappone imperiale cessò di esistere, sconfitto da quello che ormai gli stessi storici sono concordi nel definire un altro tipo di impero, quello americano, che si sostituì al Giappone nel dominio dell’area Pacifica, e che si contrappose, insieme alle altre nazioni vincitrici e sconfitte, al nuovo nemico che subito si delineò al termine della guerra: l’Unione Sovietica ed i suoi satelliti. Ma questa è un’altra storia.
Paolo Mauri
Roma, 6 ago – Hiroshima, 6 agosto 1945, 8 del mattino. Tre solitari bombardieri americani B-29 si stanno avvicinando alla città nipponica nella cui baia, quasi 4 anni prima, era ormeggiata la corazzata Nagato sede del comando dell’ammiraglio Yamamoto durante l’attacco a Pearl Harbor. L’ironia della storia, voluta o meno: il primo, orrendo passo che condurrà al termine della guerra nel Pacifico viene fatto nello stesso posto dove era iniziata.
“Little boy”, ragazzino, era il nome della bomba a fissione che trasportava il B-29 che il pilota, Paul Tibbets, aveva chiamato come sua madre: “Enola Gay”. “La” bomba, non una bomba qualsiasi, ma una come non se ne erano mai viste in tutta la storia delle guerre: pochi chili di uranio (circa 64), in confronto alle bombe convenzionali fino ad allora usate che potevano arrivare anche a migliaia di chili di esplosivo, ma dalla potenza devastante, la potenza dell’atomo.
Il fuoco nucleare era stato già svelato nel deserto americano qualche settimana prima: il primo ordigno bellico che l’uomo abbia mai visto fu fatto detonare una mattina di luglio nei pressi della cittadina di Alamogordo, nel Nuovo Messico. Il presidente Truman era arrivato a Potsdam, dove l’indomani, 17 luglio, si sarebbe tenuta la conferenza che avrebbe dato l’assetto finale al mondo, diviso in sfere di influenza tra le due grandi potenze vincitrici, USA e URSS, quando ricevette un messaggio in codice: “I bambini sono nati felicemente”. Era il segnale che il primo ordigno atomico del mondo era detonato con successo.
Ore 8:15. Da un’altezza di quasi 10 mila metri, il B-29 di Tibbets sgancia la bomba. Gli altri due velivoli dello stesso tipo che volano di conserva fanno partire gli strumenti scientifici di cui sono pieni. Il cronometro conta 57 secondi di caduta libera, e ad un’altezza prefissata di 600 metri il “ragazzino” esplode con una potenza di 13 kilotoni, 13 mila tonnellate di TNT equivalenti in una volta sola, più o meno sopra il ponte a T che unisce le due metà della città giapponese: un obiettivo facile da traguardare per il bombardiere.
20 milioni di gradi centigradi al nucleo dell’esplosione, 300 mila gradi ad un chilometro di distanza, 80 mila persone, uomini, donne e bambini semplicemente scompaiono: 30 mila atomizzati dall’immenso calore della detonazione vengono risucchiati all’interno della palla di fuoco che risale nell’atmosfera insieme a detriti infiammati, polvere, e a tutto quello che i terribili venti dati dal risucchio strappano dalla terra. Non sono le radiazioni che uccidono quella mattina ad Hiroshima, quelle mieteranno vittime dopo, nelle ore e nel tempo a seguire: mesi, anni, in cui chi è stato esposto al fallout radioattivo della bomba si ammalerà di cancro, leucemia e altre malattie mortali.
Quantificare esattamente quanti moriranno negli anni successivi all’esplosione è difficile, ma il conteggio dei morti è solo una macabra statistica: l’uomo per la prima volta aveva un ordigno dalla potenza così devastante da poter distruggere la sua stessa civiltà. Ed è stato proprio in nome della civiltà americana che il primo di questi ordigni è stato sganciato su di una città, uccidendo in un giorno solo 40 volte le persone che perirono durante l’unico attacco nipponico su suolo americano: Pearl Harbor.
La democrazia nucleare era arrivata sul suolo nipponico, e dopo pochi giorni sarebbe tornata su di un’altra città, Nagasaki, causando altre decine di migliaia di vittime e spingendo il Giappone ad accettare la pax americana, che fu siglata un mese dopo sul ponte della corazzata Missouri ormeggiata nella baia di Tokyo.
Il Giappone imperiale cessò di esistere, sconfitto da quello che ormai gli stessi storici sono concordi nel definire un altro tipo di impero, quello americano, che si sostituì al Giappone nel dominio dell’area Pacifica, e che si contrappose, insieme alle altre nazioni vincitrici e sconfitte, al nuovo nemico che subito si delineò al termine della guerra: l’Unione Sovietica ed i suoi satelliti. Ma questa è un’altra storia.
Paolo Mauri