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Giulio Cesare e il linguaggio politico nell’era di Renzi

by Michael Mocci
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caio_giulio_cesareRoma, 5 ago – Ricorre quest’anno il bimillenario della morte di Augusto. Per l’occasione, tutto il mondo accademico è concentrato sull’analisi della storia, della letteratura e della politica del periodo che va da Cesare ad Ottaviano.

Se anche la politica italiana si dedicasse allo studio di quel momento storico, prenderebbe coscienza delle differenze che passano tra la tecnica politica dell’era cesariana e in quella di Renzi.

La sintesi innanzitutto. A Roma, come oggi, non si poteva fare politica senza essere un grande oratore. Ma di fronte a un Renzi verboso, strappalacrime che indulge continuamente al patetico, abbiamo Cesare, dallo stile scarno e raffinato, che avversava ogni parola straniera. Quando, durante la guerra gallica, Cesare incontra Ariovisto, e i due trattano, accade che “Cesare rispose brevemente, Ariovisto parlò molto di sé”. Ariovisto è barbaro anche perché è prolisso e narcisista. Il motto catoniano“Rem tene, verba sequentur” (Abbi i concetti, le parole verranno) è una delle norme fondamentali dell’oratoria romana. Renzi è il campione dell’ipotassi, Cesare incede a suon di ablativi assoluti.

A Roma non esistevano delle strutture equivalenti ai nostri partiti e dunque a Cesare sono sconosciuti i litigi e le invidie del partitismo moderno. Il politico romano conosceva solo la fedeltà e il legame dei suoi clientes. Quando il Senato romano decideva, lo faceva in nome di Roma, non degli interessi delle varie fazioni. Non era possibile nel mondo romano quel fenomeno di riciclaggio camaleontico che fa sì che nel nostro Parlamento, siedano da decenni le stesse personalità.

Quando, come nel caso di Cesare, il capo politico era anche un capo militare, questo legame diventava fraterno. Sempre nel corso della guerra gallica, mentre stanno montando l’accampamento e Cesare si trova lontano, i Romani sono vittima di un agguato. Dopo un semplice cenno d’intesa tra i soldati, le centurie erano già schierate in silenzio. Grazie all’organizzazione e al cameratismo dei legionari, una situazione rischiosa, si trasforma in una vittoria. Spietato nelle punizioni e prodigo nei premi, Cesare era amatissimo dai suoi soldati che lo seguirono fino in Africa nel corso della guerra civile.

Diverso anche il rapporto con il sacro. Cesare, epicureo, non era uomo religiosissimo. Eppure era pio. Giovanissimo, durante l’orazione funebre per la zia morta, evocherà orgogliosamente la discendenza della sua stirpe da Venere stessa, ed orgogliosamente si farà eleggere Pontefice Massimo. Certo, la carica dava indubbi vantaggi politici. Ma Cesare ne andò sempre fiero e, alla fine della guerra civile, non dimenticò di far edificare un superbo tempio in onore di Venere Genitrice. Di fronte, il cattolicesimo insipido e borghese che impera tanto a destra quanto a sinistra.

Roberto Guiscardo

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