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La grande bugia della questione femminile come monopolio storico della sinistra progressista (parte seconda)

by La Redazione
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questione femminile, seconda parte

Milano, 25 giu – La menzogna non è però ancora del tutto sconfitta: indaghiamo ora l’approccio del leninismo alla “questione femminile”.

Leggi la prima parte:

In primo luogo tutto l’interesse e lo sviluppo di tale questione proviene nell’ambiente bolscevico dall’opera di Inessa Armand, una donna borghese moglie di un ricco industriale russo e amante di Lenin per tutta l’epopea rivoluzionaria fino alla di lei morte. Inessa, pianista, rivoluzionaria, madre di cinque figli, si era votata alla causa con convinzione per portare avanti una emancipazione femminile in chiave bolscevica, anche grazie al fatto di essere la più stretta collaboratrice di Lenin, nonché la sua amante, nonostante i tentativi, ancora oggi perpetrati dagli ambienti nostalgici del comunismo, del regime sovietico di tenere oscura la sua posizione, cancellandola addirittura dai libri di storia. Cancellare Inessa significava rinnegare anche la “questione femminile” e le scelte di una donna libera. Nonostante Lenin impose la sua sepoltura davanti alle mura del Cremlino, non agevolò però mai il di lei lavoro, né lo fece il PCUS che temeva che l’influenza della donna  portasse il capo della Rivoluzione ad essere macchiato dalla meschinità di un adulterio borghese. Questa vicenda che ora indagheremo, mostra ancora di più lo smascheramento effettivo della grande bugia sulla “questione femminile”.

Questione femminile, una vicenda emblematica

Inessa Armand sapeva che i partiti nel 1909 in Russia erano indifferenti se non ostili ai diritti delle donne. Anche i socialdemocratici diffidavano del movimento femminile e preferivano che le iscritte al partito non partecipassero alle riunioni, nonostante gli inutili tentativi di Aleksandra Kollontaj di persuadere i colleghi  che il coinvolgimento delle donne socialdemocratiche sarebbe stato utile all’organizzazione. Siamo quindi ben lontani dal “ monopolio di interesse per la questione femminile” vantato dalla sinistra. La Armand  pensava, in maniera più radicale,  che sarebbe stato bene organizzare il proletariato femminile in modo migliore rispetto all’approccio deludente socialdemocratico, ma questo era terreno inesplorato che coltivò poi durante l’esilio anche al fianco di un Lenin fortemente ostruzionista verso la partecipazione massiva femminile alla dirigenza politica statale. 

Anche la Armand, come la Astell, puntava sulla formazione scolastica nei suoi progetti di emancipazione e a Bruxelles, a cavallo tra il 1910 e il 1911, tenne un ciclo di lezioni sulla questione femminile, qualcosa di simile a quello che alla scuola di Bologna aveva fatto proprio Aleksandra Kollantaj. Un tentativo questo  per spronare Lenin a porre il tema come fondamentale per la formazione del nucleo dirigente del partito. Ma Lenin continuava a procrastinare il progetto. Il primo abbozzo di progetto ad avere l’assenso del “capo” fu quello dell’educazione marxista delle lavoratrici russe che vivevano a Parigi e che lavoravano nell’abbigliamento e nella moda. Altri aderenti al partito bolscevico criticarono l’iniziativa asserendo che le donne non avevano alcun problema particolare rispetto a quello del proletariato preso nella sua completezza. Il progetto naufragò. Un progetto per altro piuttosto settoriale e poco influente, come si evince, per la rivoluzione dei diritti femminili in chiave egualitaria. 

In questa prospettiva dopo la Fondazione dei Fasci femminili a Modena, Milano, Brescia, Firenze, Roma e Verona, benché  le donne non avrebbero mai invaso il campo d’azione maschile, come premesso nello Statuto pubblicato il 4 dicembre 1921, esse furono invece in grado di lottare per la creazione di una figura “politica” e non “politicante” di lavoratrice, molto più incisiva rispetto al progetto dell’educazione marxista delle lavoratrici della moda, ovvero “l’assistente sociale di fabbrica”, donna, con laurea e nubilato, training di 3 anni e assunzione da parte di Confindustria, per svolgere il ruolo di educatrici di fabbrica al fine della conciliazione degli interessi contrapposti tra datori di lavoro e lavoratori. Un ruolo delicato, politico, che permetteva l’istruzione di alto livello, in un contesto prevalentemente maschile. Oggi nel 2022, questa figura si è ripresentata nel panorama formativo universitario, ma la sua genesi è altrove rispetto al mondo della sinistra progressista ed è bene ricordarlo. 

Ancora nel 1912, quando Inessa si trovava in Galizia, come racconta il suo biografo R.C. Elwood, provò a convincere il gruppo di uomini che formavano la leadership bolscevica che un partito nuovo avrebbe dovuto tener conto della crescente importanza delle donne lavoratrici in Russia. Era convinta che alle donne, che costituivano un terzo della forza lavoro, dovesse essere indirizzata la propaganda e dovessero essere organizzate e portate nel partito. Ma pochi giorni dopo la sua proposta, sostenuta anche dalla moglie di Lenin, Nadja Krupskaja, cadeva nel vuoto, così come il tentativo della Armand di entrare a pieno titolo come donna  nel circolo esclusivamente maschile dei dirigenti del partito. Nonostante la sua relazione affettiva con Inessa è sempre stato Lenin a bloccarla e a bocciare una partecipazione femminile paritaria alla vita politica. Infatti, con disappunto di Lenin, la Armand fece germogliare le proprie idee solo quando entrò a far parte del progetto di una rivista per donne, nella quale lavorava un gruppo di attivista bolsceviche da San Pietroburgo a Cracovia a Parigi: Rabotnica ( La Lavoratrice). Nonostante la contrarietà degli uomini del partito, la rivista divenne un organo divulgativo importante che mescolava marxismo e femminismo, creando un primo proto-femminismo bolscevico  che non riteneva gli uomini la causa delle discriminazioni, ma considerava la diseguaglianza una conseguenza della inumanità delle moderne fabbriche. Le donne avrebbero potuto superarla solo lottando insieme agli uomini. Ecco, gli uomini e Lenin bollarono le pubblicazioni come sprechi di tempo e soldi, i bolscevichi continuavano a considerare la “questione femminile” assolutamente secondaria e temevano posizioni che si aprissero al legame fra amore libero e reddito autonomo per le donne tra i gruppi femminili del partito, così come prevedevano le teorizzazioni radicali della Armand . 

E arrivò il 1918, la Rivoluzione ebbe la meglio. A seguito dell’insurrezione di febbraio in Russia  alcune importanti novità, su cui Inessa aveva lavorato, vennero introdotte: era stato ritenuto valido il matrimonio civile e le donne potevano conservare dopo il matrimonio il cognome da nubili. Progressi, ma molto limitati, e che certo non bastavano alle contadine e operaie che appunto nel 1918 dovevano affrontare i pesanti problemi della sopravvivenza, del lavoro e della fame. Dopo la rivoluzione d’ottobre i bolscevichi si erano concentrati sulle decisioni urgenti di politica economica, sulla situazione nelle campagne e sull’organizzazione dello Stato. Non si erano minimamente preoccupati della questione femminile. In molti di loro era anzi forte il timore che un maggiore protagonismo delle donne avrebbe indebolito il partito introducendo il femminismo e il separatismo e proprio nel 1918 i nodi della questione femminile vennero al pettine, perché era impensabile cercare un consenso ignorando le donne. La chiusura più che decennale del bolscevismo a questa causa aveva portato infatti poche donne ad avvicinarsi al partito ( 2%) e le poche aderenti erano tutte intellettuali, la loro più insegne esponente aveva addirittura origini alto-borghesi; i dirigenti osservarono poi che le donne non erano rappresentate nei sindacati e nei comitati di gestione delle fabbriche, perché nemmeno il partito aveva dato loro spazio nel suo formarsi. Non c’era da stupirsi se al Congresso delle lavoratrici russe, organizzato dalla Armand nel maggio del 1918, si presentarono solo 130 donne e alla prima Conferenza delle donne lavoratrici  della provincia di Mosca solo 56. Due fallimenti. Da questi fallimenti e dalla necessità di avere un consenso, mai costruito tra le donne, Lenin si sarebbe piegato alla creazione di un Congresso nazionale per arrivare a ospitare un migliaio di delegate nell’inverno dello stesso anno. Non quindi una missione identitaria del comunismo bolscevico, a cui come una rivelazione molti politici progressisti in Italia hanno guardato e alcuni continuano a guardare ciecamente su base fideistica e non razionale, ma una scelta di propaganda necessaria per legittimare uno Stato totalitario.

Un’altra prospettiva

Così solo nel 1919, quando d’Annunzio attuava a Fiume la vera rivoluzione di costume del 1900, accogliendo le donne tra i legionari e assegnando loro ruoli delicati, come nel caso di Margherita Incisa di Camerana ne La Disperata, Lenin affermava che per le donne il lavoro domestico privo di senso distrugge, strangola, vanifica, instupidisce, degrada la donna, la incatena alla cucina e alla cura dei figli e distrugge la sua capacità di lavoro con una barbara, improduttiva, insignificante, snervante, instupidente e distruttiva fatica, facendo eco alle parole della Armand su Komunista che recitavano: finché le vecchie forme di famiglia, di vita domestica, di educazione non saranno abolite […] è impossibile creare un essere umano nuovo, è impossibile costruire il socialismo. Come intendessero costruirlo non ci è dato saperlo, perché la Storia ci ha mostrato come lo Stato leninista deviò nello Stalinismo , che stracciò la “ questione femminile” alla bene e meglio. Venti anni di predicazione della Armand perché le dicessero che in fondo aveva ragione a coinvolgere le donne. Un magro lavoro del progressismo in seno alla rivoluzione che non dà quindi oggi, come ieri, la prerogativa alla sinistra più radicale di fare la morale ad altre forze politiche del passato e del presente. La bugia è stata smascherata.

La “questione femminile”  ha avuto altri migliori sostenitori del bolscevismo ed è stata affrontata anche dal Fascismo, così come dagli ambienti liberali, pur se in maniera incompleta, prima della guerra, lasciando ai fasci femminili piena autonomia rispetto alla gerarchia maschile, tanto che divennero nel 1921 essi stessi gli ambienti più progressisti in Italia, soprattutto a Milano, dove convogliarono donne che provenivano sia dalle fila dannunziane, che borghesi, che aristocratiche. Furono i fasci femminili milanesi inoltre i più attivi per l’autonomia politica dal mondo maschile. 

Quello che oggi si vuole imitare, non è da cercare nella sinistra allora, ma nella versione femminile futurista e del dannunzianesimo; ricordiamo che è la compagna dell’Ardito che nella Grande Guerra aveva saggiato le proprie capacità e visto le proprie possibilità di realizzazione e che si poteva proporre di assumere una certa aggressività maschile anche in politica per la propria lotta e le proprie rivendicazioni: sapremo di questa giovinezza fare gettito pel trionfo della causa nostra e di quel diritto nostro che ci pone al vostro fianco, e non per proliferare come cagne.

La realtà è che questa lotta è trasversale e spesso generica, non abbinabile a un partito politico, nata in un ambiente borghese e in ambito strettamente filantropico-sociale ed evoluzionista. Non è una bandiera della sinistra. Come ben in Italia aveva osservato la Pieroni-Bortolotti, pioniera dell’associazionismo femminile e aderente al PCI, il movimento di riconoscimento dei diritti della donna rimaneva di matrice prevalentemente borghese, che attraversava la così detta sinistra innovatrice come la destra conservatrice, senza essere baluardo di nessuno

Silvia Luscia

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