Home » Questo non è un Paese per conservatori

Questo non è un Paese per conservatori

by Valerio Benedetti
2 comments
conservatorismo

«Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco». Quante volte abbiamo letto questo bellissimo aforisma? Molte, forse troppe. La citazione è comunemente attribuita al compositore austriaco Gustav Mahler. C’è solo un problema: nelle sue opere non ve n’è traccia, come ha confermato anche la Gustav-Mahler-Gesellschaft, la fondazione che tutela la sua eredità musicale e il suo lascito intellettuale. Probabilmente è colpa dei social, che diffondono in continuazione aforismi apocrifi dei pensatori più disparati, dal Nietzsche per casalinghe annoiate fino al sempreverde Voltaire (che no, non hai mai detto «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire»).

Una fiamma che arde

Al di là di questa erronea attribuzione, però, è molto più interessante evidenziare a chi appartiene la paternità di questa frase meravigliosa. In molti non ci crederanno, ma non è stato un conservatore a pronunciarla, bensì un socialista. Stiamo parlando di Jean Jaurès. Cosa ancora più curiosa: quando la pronunciò alla Camera dei deputati, nel gennaio del 1910, Jaurès stava polemizzando con Maurice Barrès, ossia l’ideologo principe del nazionalismo francese.

«Il signor Barrès ci invita spesso a ritornare al passato», disse Jaurès nel suo discorso ai deputati transalpini. «Bene! Anche noi, signori, abbiamo il culto del passato. Ma il vero modo di rispettarlo, di onorarlo, non è tornare ai secoli estinti per contemplare una lunga catena di fantasmi: il giusto modo di contemplare il passato sta nel continuare, proiettandola nel futuro, l’opera delle forze vive che, in passato, vi hanno lavorato». E ancora: «Non è invano che tutti i focolari delle umane generazioni hanno fiammeggiato, facendo risplendere la loro luce; ma siamo noi, che stiamo marciando e combattendo per un nuovo ideale, siamo noi i veri eredi del focolare dei nostri antenati; noi ne abbiamo ereditato la fiamma, mentre voi avete conservato solo le ceneri».

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2023

Questo piccolo excursus aforistico ci dice una cosa molto semplice: una tradizione è viva e operante quando sa rinnovarsi e proiettarsi – e quindi progettarsi – nell’avvenire. Il resto è solo contemplazione museale di ciò che è ormai perento, nostalgia di un «piccolo mondo antico» che rimpiange la lettera perché ha smarrito lo spirito. È muta cenere, non fiamma che arde.

In uno dei suoi articoli più penetranti, Giorgio Locchi contestò apertamente Claude Lévi-Strauss, il quale faceva l’elogio del culto del passato proprio di una tribù autoctona dell’Australia: l’indigeno Aranda, scriveva l’antropologo francese, «rispetta ciecamente la tradizione, resta fedele alle armi primitive che usavano i suoi lontani antenati, e l’idea di migliorarle non gli passa neppure per la testa». Chiosava giustamente Locchi: «Continuando ad utilizzare le loro “armi primitive” gli Aranda tradiscono, anziché rispettare, i loro “lontani antenati”. Infatti ripetono là dove i loro antenati avevano improvvisato o inventato; segnano il passo là dove i loro antenati avanzavano; cercano rifugio in un mondo reso certo, mentre i loro antenati, sfidando l’ignoto, aprivano le porte di un mondo nuovo. Gli Aranda “fedeli alla tradizione” non sono che i residui fossili della storia dei loro antenati».

Il conservatorismo parla inglese

Ecco, occorre partire da qui per tentare di cogliere le evidenti contraddizioni di una certa destra nostrana che, recentemente, si è infatuata del cosiddetto «conservatorismo». Si tratta, tanto per cominciare, di una dottrina che è totalmente estranea alla tradizione politica italiana. Non è un caso che, ancora nel 1972, Giuseppe Prezzolini si lamentasse di questa patente assenza. E lo faceva proprio lui che, nei gloriosi anni della Voce, era stato uno dei più grandi innovatori del suo tempo. Il Manifesto dei conservatori, più che un appello alla battaglia, era ormai lo stanco commiato di un vecchio incendiario che non aveva più nulla da dare né da dire.

Su una cosa, però, il novantenne Prezzolini aveva ragione: «Evidentemente un conservatore è uno che vuol conservare qualche cosa. Ma pochi si accorgono che per poter conservare qualche cosa, bisogna che un individuo, una classe o un popolo siano anche in possesso di qualche cosa. Ecco un primo punto, proveniente dalla logica del termine stesso, che per avere realtà richiede la necessità di un possesso. Di qui deriva l’impossibilità di una propaganda conservatrice se non a gente che possieda qualche cosa e la senta propria».  

In effetti, il conservatorismo è una dottrina genuinamente anglosassone. Il motivo di questa primogenitura e di questo radicamento è molto semplice: sia l’Inghilterra che gli Stati Uniti erano – o sono tuttora – in possesso di qualcosa. Hanno, insomma, qualcosa da conservare. Nello specifico, gli inglesi avevano l’impero britannico, mentre gli statunitensi hanno, ancora oggi, l’impero americano. Una volta assurte al rango di prime potenze mondiali, sia Londra che Washington avevano tutto l’interesse a essere conservatrici. D’altronde, c’era – e c’è ancora – una supremazia da difendere.

Italia terra di rivoluzionari

Eppure, nelle altre nazioni europee, le cose stanno molto diversamente. La Francia, che non aveva alcuna voglia di «conservare» l’ancien régime, ha dato vita a una delle più grandi rivoluzioni dell’era moderna. La Germania, che raggiunse l’unità politica molto tardi, ha cercato di costruire la sua egemonia «sovvertendo», e non conservando, lo status quo edificato dalle potenze occidentali. Gli stessi Stati Uniti, prima di diventare «conservatori», si sono sempre pensati come i «timorati di Dio» che tagliavano tutti i ponti con il passato, ossia con un’Europa ritenuta marcia e peccaminosa. Le tredici colonie, anziché «conservare» il loro stato di subordinazione a Sua Maestà britannica, si sollevarono per ottenere l’indipendenza da un’Inghilterra che, per loro, era più matrigna che madrepatria. 

E l’Italia? Ecco, da noi i conservatori sono sempre stati i legittimisti, i reazionari, i papisti, i bottegai. Stiamo parlando, cioè, dell’intero fronte anti-unitario, ben rappresentato dal tipo umano del conte Monaldo Leopardi. Una forza politica che oggi si definisce «patriottica», e che (giustamente) onora Giuseppe Mazzini, dovrebbe sapere che il patriota genovese non era affatto un conservatore, bensì un rivoluzionario: per la precisione, il rivoluzionario più ricercato dalle polizie di mezza Europa.

Leggi anche: La Russa ci scrive: «Il conservatorismo? Così vinciamo la guerra delle parole»

Il fatto è che l’Italia, come nazione, non ha mai avuto nulla e, proprio per questo, è sempre stata terra di rivoluzionari: Mazzini, Garibaldi, Pisacane, Bombacci, Gramsci, Corridoni, Mussolini, Mattei. E la lista potrebbe continuare. L’Italia, in sintesi, è la «grande proletaria» cantata da Giovanni Pascoli, quella che a Versailles fu raggirata dai legulei anglofrancesi e che, con la disfatta del 1943-1945, ha perso pure indipendenza e proiezione di potenza. Nel 2023, le cose non sono migliorate. Semmai, si sono aggravate. Insomma, oggi che cosa dovremmo conservare, noi che non abbiamo più nulla?

Non intendo affatto risolvere la questione del conservatorismo in queste poche righe, ma è chiaro che qui urge una discussione franca e spietata. Negli ultimi tre decenni, l’Italia ha…

You may also like

2 comments

fabio crociato 21 Maggio 2023 - 10:36

La rivoluzione è equilibrio, come anche il mantenere acceso un fuoco. Tutto il resto è pochezza disumana…, arrabattarsi nei deliri quotidiani immanenti.

Reply
SiDai 23 Maggio 2023 - 10:03

grande

Reply

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati