Roma, 16 ott – Senza ricostruzione genealogica si corre spesso il rischio di utilizzare concetti in maniera poco consapevole. Qui mi occuperò, schematicamente s’intende, del principio di autodeterminazione dei popoli, che ha avuto come suo grande alfiere e protettore il presidente americano Woodrow Wilson. Dietro la solita retorica dei nobili e disinteressati sentimenti umanitari, il principio di autodeterminazione dei popoli rispondeva a due obiettivi geopolitici molto concreti e ovviamente in linea con i disegni wilsoniani: smembrare definitivamente gli Imperi Centrali, dando vita al contempo a un cordone sanitario nell’Est Europa in funzione antitedesca e antisovietica, e creare un precedente essenziale per la futura dissoluzione degli imperi coloniali francese e inglese. Un esempio di come già all’epoca si registrassero gravi fraintendimenti in relazione a tale principio lo si può trovare nel suo utilizzo da parte di D’Annunzio, laddove era stato proprio Wilson, in nome dello stesso principio, a opporsi a Fiume italiana.
Autodeterminazione dei popoli, un principio usato in maniera strumentale
Durante la seconda guerra mondiale il principio, nel pieno rispetto della tradizione wilsoniana, lo si ritroverà nel punto terzo della “Carta atlantica” del 1941, siglata da Stati Uniti e Inghilterra. Ancora una volta gli obiettivi concreti americani – con Churchill convinto, del tutto irrealisticamente, di poterne disinnescare successivamente gli effetti anticolonialistici – erano la messa in discussione del dominio tedesco nell’Est Europa e appunto la fine degli imperi coloniali europei, cosa, quest’ultima, destinata puntualmente ad avverarsi in appena un quindicennio dopo il 1945.
Inoltre, essendo un diritto universalistico, e quindi in linea teorica applicabile sempre e ovunque, il principio di autodeterminazione dei popoli andrebbe sempre rispettato, senza deroghe di alcun tipo, col rischio concreto di creare le condizioni per una balcanizzazione senza freni, essendo indiscutibile che quasi ogni Stato abbia al suo interno minoranze etnolinguistiche che a tale principio potrebbero appellarsi, con la prevedibile conseguenza di giungere alla disgregazione di quelle stesse entità statuali, laddove, al contrario, ragionevoli soluzioni federalistiche o autonomistiche potrebbero invece garantire a tali minoranze una serie di diritti, senza arrivare al punto di non ritorno della dissoluzione dello Stato.
D’altronde, se si continua a guardare al concreto dato storico, ci si accorge di come tale principio sia stato utilizzato in maniera assolutamente strumentale, in quanto si presta perfettamente a giustificare posizioni dettate non certo da nobili principi ma da ben più concreti interessi geopolitici. Per cui si tratta di un principio doppiamente ambiguo, nel senso che, da un lato, se venisse applicato nel pieno rispetto della sua universalità, creerebbe le condizioni per un caos politico generalizzato, dall’altro, si presta a meraviglia ad un suo uso ideologizzato, e quindi a fungere da copertura ‘alta’ per ben più ‘bassi’ fini geopolitici.
Qualche rapidissimo esempio al riguardo: a parte i casi più complicati in cui entrambe le parti in lotta si richiamano al principio di autodeterminazione, non c’è che l’imbarazzo della scelta; sempre in base al diritto all’autodeterminazione dei popoli, perché gli Irlandesi dell’Ulster sì e gli Altoatesini o i Baschi o i Catalani no? Perché i Kosovari no e i Corsi sì? E perché i Palestinesi sì e i Curdi no? E i Tibetani? E così via. Insomma, a me pare evidente come in ognuna di queste situazioni contino considerazioni di ben altra natura, evenienza che dimostra appunto l’inutilizzabilità pratica e la pericolosità teorica di tale principio.
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Giovanni Damiano