Roma, 23 feb – «Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fonte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti». Così, con stile riccamente immaginifico e ampio ornamento di metafore guerresche, il 20 febbraio del 1909, sul giornale parigino «Le Figaro», Filippo Tommaso Marinetti presentava il Manifesto del futurismo in cui lo scrittore e i suoi sodali «contusi e fasciate le braccia, ma impavidi [dettarono le loro] prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra»[1]. Meno noto di questo suo antecedente letterario è, invece, il Manifesto del partito futurista italiano, redatto sempre da Marinetti e pubblicato nel settembre 1918, con cui il movimento di avanguardia artistico-culturale si faceva “partito” ed esponeva a chiare lettere il suo programma d’azione.
I manifesti politici futuristi
In realtà il manifesto del 1918 non fu il primo documento in cui il futurismo abbinò, alla sua carica innovativa in ambito artistico, una proposta politica a suo modo nazionalista, libertaria e rivoluzionaria. Già nel 1909, infatti, era stato pubblicato un manifesto del Movimento politico futurista per le elezioni di quell’anno, seguito nel 1911, allo scoppio della guerra di Libia («[la] grande ora futurista d’Italia»), da un proclama dai toni bellicisti (in cui la guerra era definita «sola igiene del mondo», come nel manifesto letterario del 1909) e da un terzo programma, pubblicato in occasione dell’appuntamento elettorale del 1913, in cui si promettevano eloquentemente agli italiani «tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacchi».
Il futurismo, in effetti, in quanto “esperienza globale” capace di coinvolgere tutte le dimensioni (artistiche ed extra-artistiche) dell’esperienza dell’uomo, ebbe da subito una vocazione politica, nel senso che l’aspetto politico non fu mai secondario rispetto a quello culturale, e assorbì nella sua visione fermenti e suggestioni diffusi nell’Italia di quei tempi: l’ostilità al socialismo (“panborghesismo moderato”) tratta dal «Leonardo» di Papini e Prezzolini, il nazionalismo e l’antiparlamentarismo declinati (in antitesi alla posizione del Corradini de «Il Regno») in senso antiretorico, anticlericale e “antiromano” («Sia cancellato il fastidioso ricordo della grandezza romana, con una grandezza italiana cento volte maggiore» si legge nel Manifesto del 1911), fino al culto dell’azione, anche violenta, mutuato da Sorel e dal sindacalismo rivoluzionario[2].
Le origini del futurismo politico
Una ricostruzione delle origini del futurismo politico, fino al momento in cui i suoi destini si incrociarono, nel turbolento primo dopoguerra, con quelli del fascismo e del fiumanesimo, la propone Renzo De Felice nel primo volume della sua biografia di Mussolini[3]. Lo storico reatino ricorda le origini prebelliche del movimento politico futurista descrivendolo, forse ingenerosamente, come ispirato a un «generico sovversivismo [in cui] avevano parte motivi nazionalistici, anarchicheggianti e vaghe aspirazioni di rinnovamento sociale e politico» e afferma che esso si era poi organizzato attorno a due pubblicazioni (la «Vela latina» di Napoli e «L’Italia futurista» di Firenze) fino a quando, nel settembre 1918, vide la luce nella capitale il periodico «Roma futurista», che si definiva organo del Partito politico futurista (di cui pubblicò infatti il Manifesto) e che era diretto da Emilio Settimelli, Marinetti e Mario Carli, esponente dell’arditismo e fondatore, nella Fiume dannunziana, della rivista legionaria «La Testa di Ferro».
Un parlamento «sgombro di rammolliti e di canaglie»
I punti del programma politico futurista si ricavano dal Manifesto del 1918 e risentono dei trascorsi interventisti e dell’esperienza al fronte vissuta da diversi esponenti del movimento. Essi spaziano (sullo sfondo di una visione dominata dal culto del dinamismo e dell’azione, da un acceso nazionalismo e da un libertarismo e anticlericalismo di fondo) dalle questioni politiche a quelle economiche, fiscali, giudiziarie e sociali, con un occhio di riguardo ai combattenti, ai reduci e ai mutilati di guerra.
Sul piano istituzionale il futurismo fu, come il fiumanesimo e il fascismo sansepolcrista, dichiaratamente democratico, schierandosi a favore del suffragio universale maschile e femminile e della rappresentanza proporzionale in un Parlamento “giovane” di tecnici ed esponenti delle categorie produttive (industriali, agricoltori, ingegneri e commercianti) che fosse «sgombro di rammolliti e di canaglie» e annoverasse tra i suoi membri un «minimo di deputati avvocati (sempre opportunisti) e un minimo di deputati professori (sempre retrogradi)». Quanto al “decrepito” Senato, tipica istituzione monarchica, il repubblicanesimo futurista ne proponeva tout court l’abolizione.
Modernizzatrice e progressista era anche la parte socioeconomica, imperniata sulla socializzazione della terra, l’impulso all’industrializzazione, il massimo legale delle otto ore di lavoro giornaliere, l’introduzione dei contratti collettivi, l’elevazione dei minimi salariali, un «sistema tributario fondato sull’imposta diretta e progressiva» e l’implementazione del sistema previdenziale. L’aspetto libertario e laicista del programma era, infine, apertamente rivelato laddove si rivendicava un «anticlericalismo intransigentissimo ed integrale», affiancato dalla proposta di una facilitazione del divorzio e dall’idea di una «svalutazione graduale del matrimonio per l’avvento graduale del libero amore […]».
Futurismo e fascismo
Questo futurismo politico, organizzato nei “fasci futuristi” che iniziarono a essere costituiti nel 1918 (e che all’inizio del 1919 contavano una ventina di “sezioni” in tutta Italia, tra le quali una a Milano, una a Firenze, una a Roma e una a Napoli), fu secondo De Felice l’espressione «di quel confuso ma sincero desiderio di radicale rinnovamento politico, sociale e morale di quell’ala del combattentismo che […] avrebbe dato vita ai primi Fasci di combattimento [di cui] i futuristi, insieme agli arditi, avrebbero costituito in varie località i primi nuclei». Esso, inoltre, portò al nascente fascismo un fervore morale e un valore aggiunto culturale che assicurarono al movimento mussoliniano le simpatie di intellettuali di spicco, tutti più o meno gravitanti attorno al «Popolo d’Italia» negli anni 1919-20, quali Carrà, Ungaretti, Podrecca e diversi altri.
Nonostante le convergenze ideali, i futuristi non confluirono però in senso vero e proprio nel fascismo (il quale, non essendo allora un partito ma un movimento, accettava anche le doppie iscrizioni), sebbene vi fu una serie di iniziative comuni tra cui spiccarono l’adesione futurista al progetto mussoliniano della Costituente dell’interventismo, la partecipazione di Marinetti all’adunata di San Sepolcro del 23 marzo 1919 e il suo impegno con Mussolini fino al distacco consumatosi al congresso di Milano del maggio 1920, quando il poeta abbandonò i Fasci (definiti senza mezzi termini una «congrega di passatisti») in seguito a contrasti su questioni di rilievo tra cui l’abbandono della pregiudiziale antimonarchica e anticlericale.
Il tramonto del futurismo politico
Con il consolidarsi del movimento dei Fasci all’inizio degli anni Venti «prende inizio la dissoluzione del futurismo in quanto effettivo movimento [politico] di avanguardia» e il fascismo «assorbirà di fatto il futurismo neutralizzandone ogni elemento anarchico ed eversivo»[4].
Questo accadde perché, come osserva De Felice, la “crisi” del 1920 aveva messo in evidenza le difficoltà che il futurismo avrebbe incontrato nel proseguire il cammino con un fascismo che già si preparava al compromesso con la monarchia, con la Chiesa e con l’establishment economico. Un problema, questo, che emerse non solo per il futurismo (e per il fiumanesimo), ma per il fascismo stesso, nel senso che anche diversi fascisti accettarono obtorto collo (se non contestarono) la “svolta a destra” impressa al movimento da Mussolini.
Resta comunque vero che, tra i promotori del progetto futurista, alcuni mantennero la fiducia in Mussolini e nel fascismo nei successivi anni del regime e, tra costoro, vale la pena di seguire l’itinerario del fondatore del movimento, ovvero Marinetti. Lo scrittore infatti, dopo il distacco del 1920, si riavvicinò al fascismo nel 1923-24, accettando il nuovo corso mussoliniano nei termini di una “realizzazione minima” del programma futurista. Divenuto Accademico d’Italia nel 1929, in coerenza con il suo passato interventista, con le scelte politiche del primo dopoguerra e con certi contenuti della sua poetica egli si recò in Africa come seniore della Milizia nel 1936 e fu ancora volontario in Russia nel 1942-43, per aderire dopo l’armistizio alla Repubblica sociale italiana, una scelta determinata «da un’estrema, disperata fiducia nella capacità di rinnovamento rivoluzionario di Mussolini»[5]. Sofferente di stomaco e di cuore, Marinetti si stabilì prima a Venezia e poi sul lago di Garda, dove si spense quasi settantenne nel dicembre 1944, non prima di aver dedicato la sua ultima composizione, Quarto d’ora di poesia della X Mas, ai giovani combattenti della Flottiglia di Junio Valerio Borghese. «Saremo siamo le inginocchiate mitragliatrici a canne palpitanti di preghiere. Bacio ribaciare le armi chiodate di mille mille mille cuori tutti traforati dal veemente oblio eterno» furono, infatti, le “parole in libertà” con cui il fondatore del futurismo si congedò dalla letteratura e dalla vita.
Corrado Soldato
[1] F.T. Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo. In: Marinetti e il futurismo, Milano, 2017
[2] L. De Maria, “Introduzione” a: Marinetti e il futurismo, cit.
[3] R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, 1965
[4] L. De Maria, cit.
[5] R. De Felice, Mussolini l’alleato. La guerra civile 1943-45, Torino, 1997