Portovenere, 19 giu – Sulla coda di pietra che sbatte sui flutti, Portovenere si distende femmina ancestrale. Quasi sulla punta, una porta sul mare – sul niente – sul tutto incornicia una voce che sussurra urla e ti costringe ad entrare. Dentro la bocca la grotta Arpaia, un anfiteatro di roccia dove va in scena Omero il cieco. Ad Arpaia si guarda con gli occhi di Ulisse, si ascolta la voce di Poseidone.
Sotto le mura doriane che paiono Ilio, affacciate alla balaustra del tempo, illuminate da lanterne di vetro.
Sotto il cielo color dell’acciaio, incontro di spade sul sepolcro del sole. Lord Byron fissa nell’unico occhio la prossima odissea. Ha già nuotato fra i miti classici e le ere, traversando l’Ellesponto sulle rotte di Serse e Leandro.
Ottobre ’22. 1822. Gli scrittori non sono ciechi e interpretano i loro eroi. Byron e Trelawny scendono in duello nuotando da Portovenere a San Terenzo. Dalla grotta Arpaia alla nave Bolivar, traguardo galleggiante. In un mare simbolico gravido di pesci e metafore.
“Ho percorso a nuoto più miglia di quanto tutti gli altri poeti viventi abbiano fatto in mare”. Con questa frase Byron orina acqua salata sull’epitaffio del letterato bibliofilo e alza il sipario sul mare come teatro da vivere e interpretare. Chiama a raccolta il pubblico per le sue imprese, perché vedano il mare popolato da uomini e non solo da alghe, perché entrino nella sostanza umida del mondo.
Sarà dedicata a lui la prima società di nuoto, pochi anni dopo la sua morte, in Grecia, sugli scudi del mito dell’indipendenza.
Per i veneziani è il “diavolo marino” che ha nuotato per quattro ore, dal Lido all’imbocco opposto del Canal Grande, lasciando gli avversari a vomitare lungo il percorso. Avendo marcato inizio e fine di quel giorno con l’abbraccio più tenero di due donne diverse.
A Venezia a volte nuotava vestito nei canali, per emergere all’improvviso alle spalle dei passanti. Byronic. Ma l’hanno conosciuto anche il Tago e il Tamigi, mari e laghi, e fra Sestos e Abydos ha portato la fiaccola del Genio senza età.
“Cammina fra le tue messi smaglianti, o Mare, un altro che non uccidesti”, dice Benelli di Lord Byron. E Poseidone non l’ha ucciso quell’Ulisse spavaldo, viaggiatore dell’anima che “di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri”. Ma proprio come Odisseo “molti dolori patì sul mare nell’animo suo” e vide scomparire fra le onde amici fraterni. Il mare, ancora, testimone di vita e morte. Orizzonte che taglia le linee della pira ardente che asciuga il cadavere di Shelley, affogato alla Spezia con Sofocle in mano. Il mare, ancora, linea continua dove Byron si tuffa nuotando dritto a largo delle sue lacrime, del sangue blu di dei e nobili, di quel Poseidone che lo abbraccia ma non stringe.
Simone Pellico
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