Roma, 6 giu – Nelle fasi di decadenza ciò di cui si sente maggiormente l’esigenza è la lucidità mentale. La calma, l’impassibilità interiore, la freddezza del pensiero, che permettono di orientarsi anche negli stadi storici più confusi e incerti. Pochi pensatori sono all’altezza del ruolo e ancora meno durano oltre la loro epoca. La grandezza di una filosofia consiste nella sua profondità essenziale e nella sua capacità di trasferirsi coerentemente sul piano operativo. Quando questo accade, si genera un pensiero fecondo e vitale.
Ciò che è riuscito al poeta filosofo romano Tito Lucrezio Caro è proprio di conservare intatta la sua profonda fecondità teoretica nonostante i millenni. Il suo pensiero, frainteso e maliziosamente interpretato da alcuni esegeti cattolici, intenti ad assoldare alla propria causa quelle parti di pensiero antico adatte ai loro scopi e a relegare alla damnatio memoriae tutto ciò che non comodava, si è tuttavia conservato. Come una sotterranea corrente lavica che ha prolungato nel tempo la sua influenza.
Lucrezio filosofo della totalità
Il prezioso e denso testo fresco di stampa, Lucrezio filosofo della totalità (Ritter, 166 p, 18€) opera del prof. Giuseppe Scalici, è un importante contributo teso a riscoprire e valorizzare questo grande autore da una prospettiva per certi versi inattesa dal mondo del pensiero tradizionale e della cultura dissidente. Detto a chiare lettere: il saggio dello Scalici è un lavoro di grande valore ermeneutico e filologico. Il quale che non solo fornisce solide e articolate informazioni sull’intero sistema lucreziano, ma le reinterpreta in un’ottica attualizzante. Connettendole a pieno titolo alla visione del mondo e dell’uomo originaria. E, perciò, indistruttibile.
Com’è noto, Lucrezio è stato tendenzialmente considerato un materialista e un ateo, principalemente a causa della distorta interpretazione cristiana prevalsa nei secoli. A questa bisogna aggiungere l’avversione nutrita nei suoi confronti da tutta la cultura di potere della sua epoca, stoici, Cicerone e Virgilio su tutti. L’interpretazione approfondita e argomentata dello Scalici dimostra tuttavia che Lucrezio non fu un empio avversario della pietas, dell’humanitas, della dignitas. Fu semmai un fermo e radicale oppositore di ogni susperstizione e di ogni rassicurante prospettiva che presumeva la storia governata da un disegno divino e ordinata da una provvidenza a dimensione d’uomo.
Il De Rerum Natura, l’unica opera scritta dal filosofo romano, è un ampio studio che si propone di comprendere il funzionamento della natura. Risalendo alle cose ultime che sono causa di tutto ciò che è e del divenire. Lucrezio indica negli atomi le particelle più piccole da cui dipende tutta la realtà e che si imprimono sugli organi umani generando le sensazioni. A loro volta corpo e anima umani sono entrambi composti di atomi e perciò sono secondo lui entrambi corruttibili. Il mondo è per lui in moto costante, è in perenne contrazione tra vuoto e pieno. Una continua trasformazione di ogni cosa che, per certi versi, anticipa il pardigma della fisica moderna “nulla si crea, nulla si distrugge”.
De Rerum Natura: religione originaria e metapolitica
Alla luce di questa visione complessa, debitrice oltre che alla scuola di Epicuro anche alle dottrine di Eraclito, Empedocle e Democrito, Scalici considera il pensatore latino come filosofo della totalità, poiché nel suo sistema la natura è un tutto unitario, organico, mutevole, che non dipende da alcun creatore esterno, da alcuna provvidenza o ordine divino. Ben si capisce perciò, a partire da questi presupposti, come il De Rerum Natura potesse essere considerato testo empio e irreligioso.
A una più attenta lettura, tuttavia, fin dalle prime pagine dello straordinario poema non si fatica ad incontrare l’autentica devozione lucreziana. Non si potrebbe giustificare come materialismo o opportunismo la dedica a Venere contenuta nel Proemio. L’inno a Venere, sottolinea puntualmente Scalici, è un esplicito richiamo alla religione originaria: «La dèa viene intesa quale simbolo dello slancio vitale eterno della totalità naturale, dell’en kai pan esaltato dall’originaria filosofia greca». Inoltre, si potrebbe azzardare che, in un periodo in cui si faceva sempre più forte la necessità di un risveglio della luce di Roma nel segno della stirpe di Enea, questo esplicito richiamo alla dèa, presente anche nell’Eneide, denota per certi versi l’intento quasi metapolitico dell’opera.
Intento, sia chiaro, che può soltanto essere liberamente dedotto da una serie di fattori prettamente storici e legati alla biografia di Lucrezio. La sua opera infatti non si prefigge alcuno scopo di tipo propriamente politico. Non si tratta cioè di un testo che possa in qualche modo essere assimilato ai trattati schiettamente politici di Platone e Aristotele. Anzi, il De Rerum Natura segue fedelmente la norma epicurea del “vivere nascosto”, appartato e impassibile ai piaceri e alle ambizioni della vita. Se la vita è fatta di successi e insuccessi destinati a sfiorire in poco tempo, la norma dev’essere di non attaccarsi a nulla, di astenersi da legami interiori. Colui che sappia mantenersi distaccato e sappia condurre una vita frugale, potrà liberarsi dai vizi e dalle mollezze di un mondo in piena decadenza, dove dolore e morte condizionano ogni momento dell’esistenza.
La filosofia lucreziana non ha però il tono della sconfitta e della resa ai capricci del fato. Diversamente dal determinismo stoico, Lucrezio ritiene che l’uomo abbia sempre un margine di azione per influire sugli eventi. Poiché tutto è vacuo e transitorio bisogna agire per il qui ed ora. Solo così sarà possibile quella vittoria che innalza l’uomo ai cieli: nos aexequat victoria caelo.
Una risposta alla decadenza
Letta sotto questa angolazione, l’opera appare come una risposta alla decadenza in cui era caduta Roma. Rotto l’equilibrio repubblicano tra i tre principali ordini sociali, Consolato, Senato e Tribuni, esplode la lotta tra fazioni che sfocerà nella guerra civile e nella congiura di Catilina, prima, e nel colpo di Stato di Cesare, poi. Il poeta latino visse in parte questi tempi tumultuosi, ma è del tutto chiaro che l’intento della sua opera è quello di riconquistare una visione del mondo in grado di vincere quella crisi epocale.
Dunque Lucrezio si fa portavoce di una visione del mondo originari. Totalmente radicata, cioé, nella religiosità degli albori, come per altro ebbe modo di sottolineare Hans Günther. Una religiosità totalmente spogliata di ogni superstizione, di ogni vuoto gesto volto ad ingraziare l’intervento di qualche divinità che mai, secondo Lucrezio, si interesserà delle cose umane. Una superstizione fatta di deboli credenze di comodo, atteggiamenti incapacitanti al cospetto della vita, creati da uomini alla ricerca di rassicurazioni effimere. Il poeta invece afferma l’indifferenza degli dèi e la totale indipendenza della natura. Da questa prospettiva, primordiale per la sua palpabile semplicità, la natura, physis, è compresa come la casa dell’essere. L’essere non si colloca dunque in un iperuranio e la verità si manifesta nel reale.
Per certi versi questa dottrina anticipa di due millenni la critica al platonismo mossa da Martin Heidegger, che infatti giunge a conclusioni molto simili a quelle del filosofo latino. In estrema sintesi, per il maestro tedesco il pensiero europeo (greco) originario comprendeva la natura come il dispiegarsi della verità dell’essere nel suo nascondersi e mostrarsi; si trattava di una comprensione im-mediata, la stessa a cui si riferisce Lucrezio. Così Heidegger: «la natura in quanto tale regna sovrana solo dove l’essere è compreso» (v. L’essenza della verità, p. 270).
Lucrezio: dal caos al kosmos
La natura è quindi un tutto composto di materia in eterno movimento. Un caos sempre in procinto di diventare kosmos, per poi di nuovo disfarsi e assumere nuove fattezze. Il divenire non risponde ad alcuna teleologia, ad alcuno scopo ultimo. «La storia è priva di scopo umano, si svolge per annientarsi, si accresce per dissolversi».
Nonostante il De Rerum Natura presenti qua e là tesi che si vorrebbero maldestramente scientifiche, nel complesso resta un capolavoro poetico. Nonché un’importante opera filosofica che solleva ancora oggi questioni di essenziale rilevanza. Al di là della problematica relativa ad esempio all’immortalità dell’anima, il testo è ricco di spunti e suggestioni. I quali, a partire dalla sua riscoperta in epoca rinascimentale hanno fortemente influenzato il pensiero di molti illustri autori come Machiavelli, Giordano Bruno, Vico, Hobbes, Gassendi, Leopardi, Rensi. Insomma tutto quel filone per certi versi alternativo al razionalismo cartesiano e all’ottimismo illuminista è stato in un modo o nell’altro influenzato dalla visione disincantata lucreziana, dalla sua concezione conflittuale della civiltà e soprattutto dalla sua comprensione della natura come totalità in perenne divenire di cui l’uomo è una parte.
Come precisa magistralmente Francesco Ingravalle nel saggio conclusivo, Lucrezio e più in generale l’epicureismo, pur raccomandando una condotta di vita “impolitica” hanno influenzato da due prospettive radicalmente diverse i novecenteschi modelli di “democrazia radicale”: quello marxista e quello fascista, a seconda che prevalga la preoccupazione per la felicità collettiva, nel primo, o il carisma dell’uomo giusto, nel secondo. Comunque sia, in entrambi i casi l’epicureismo richiede una politicizzazione che lo proietti attivamente nella sfera sociale – approccio altrimenti assente nella dottrina originaria.
Francesco Boco
4 comments
[…] Author: Il Primato Nazionale […]
[…] Lucrezio: la saggezza originaria contro la decadenza proviene da Il Primato […]
Lucrezio, Epicuro… ho un rigurgito da ’68 mal digerito. A me pare né spada e né preghiera , roba “brutta” insomma. Vedrò di tornare a scuola.
[…] della potio (pozione) non è di paternitá prettamente dantesca, prima di Dante infatti era stato Lucrezio ad utilizzarla nel suo De rerum […]