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Come funziona il marketing politico: la guerra delle idee in un mondo social

by Guido Taietti
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marketing politico

La fine della Guerra fredda ha portato in Europa quella progressiva omologazione dell’offerta politica che ha aperto le porte al cosiddetto «marketing politico». In precedenza, un tale insieme di tecniche e concezioni comunicative aveva senso di esistere quasi esclusivamente nel mondo anglosassone: dove, cioè, la presenza di un sistema maggioritario basato sull’alternanza tra due partiti dalla quasi identica piattaforma politica rendeva necessarie tutte queste sofisticatezze per conquistare gli indecisi, mobilitare i propri elettori e dissuadere i simpatizzanti altrui.

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di agosto 2021

Nel resto dell’Europa – e in particolare nell’ultrapoliticizzata Italia – non aveva senso tentare operazioni di marketing troppo raffinate: le identità politiche erano estremamente definite, marcate, profonde e non intercambiabili. Era quasi impossibile convincere un elettore del Pci a votare per un altro partito; un elettore del Msi non avrebbe votato altro se non di fronte a rare condizioni, e grossomodo questo valeva per tutti i grandi schieramenti dotati di una propria identità.

Il marketing politico in Italia

A partire dal 1994 – cioè con la famosa «discesa in campo» di Berlusconi e Forza Italia – questo nuovo modo di fare politica ha definitivamente preso piede anche in Italia, affermandosi sempre di più: prima partendo dalle elezioni locali, poi man mano a crescere, fino a diventare il paradigma standard della comunicazione partitica.

In realtà, si tratta di un modello solo parzialmente funzionante, perlomeno per la parte del mondo politico che si richiama direttamente o indirettamente ai valori del sovranismo. Potrebbe funzionare – e funziona – solo per chi condivide la tavola di questi nuovi valori di fondo che sembrano comporre il «mainstream» in Occidente, vale a dire «progressismo a livello morale, globalismo a livello economico». Qualcosa che, chiaramente, per i sovranisti non è accettabile. Questa premessa è sempre meno vera e rende sempre meno efficace, soprattutto per i sovranisti, pensare in termini di marketing politico, rendendo necessario ripensare il proprio modo di «comunicare» la politica, e forse più in generale il proprio modo di farla. Perché?

La rivoluzione digitale

Tanto per cominciare, perché oggi il 99% del dibattito politico avviene nell’infosfera, tra social, indicizzazione di Google e notizie – quasi sempre riprese da post o dibattiti nati in rete – massicciamente diffuse da media tradizionali come tv e stampa. Soprattutto in questa parentesi che sembra non finire mai – e forse non è pensata per finire – legata all’emergenza Covid, in cui la socialità in presenza fisica è stata completamente annientata e spostata sui social, possiamo esplicitamente parlare di «inversione» tra reale e virtuale, ove il virtuale è il piano dove davvero accadono le cose, e il reale – se non riesce a passare «online» – è solo una realtà residuale.

Ma – e questo è il concetto fondamentale che non va trascurato, pena non comprendere le dimensioni del problema – questa infosfera, questa infrastruttura dove avviene il dibattito politico, non è neutrale. Non solo non è neutrale ma, essendo la risultante di spazi sostanzialmente privati (Facebook, Twitter, i grandi media, Google), ha una propria agenda politica e intende perseguirla.

La nostra grande sfida

Occorre capire che, se è ovviamente assurdo pensare che il grandissimo capitale post-produttivo, proprietario di questa infrastruttura che abbiamo chiamato «infosfera», possa essere definito «di sinistra», si può però con una discreta sicurezza affermare l’opposto. E cioè che è piuttosto la sinistra progressista ad essere diventata il terminale politico del grandissimo capitale, dato che porta avanti un’agenda coincidente con gli interessi dei nuovi padroni del vapore.

E quindi il diritto di produrre in Cambogia, assemblare in Cina, prendere finanziamenti statali in Italia e pagare le tasse alle isole Cayman diventa in modo cool «essere no border». Eliminare ogni dibattito sul diritto del e al lavoro sostituendolo con qualunque narrazione fintamente emancipante – ma mai a livello sociale – diventa casualmente «essere pro Lgbt» ecc. In tutto questo – e non è un caso – l’agenda sovranista gioca…

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