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Mishima e la difesa della cultura

by La Redazione
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Roma, 6 ago – Potremmo chiederci cosa realmente la cultura del Giappone ci insegna. Ciò che Yukio Mishima ci ha detto nel libro La difesa della cultura è che nella cultura del Sol Levante i modelli d’azione sono trasformati in opere d’arte. Come per esempio le arti marziali, che appartengono allo stesso genere artistico della cerimonia del tè e della disposizione dei fiori. Anche il Bushido – o via del samurai – è un’estetica della morale o etica della bellezza, dove modo di vivere e arte coincidono. In Giappone la cultura non ha una distinzione tra originale e copia. La distruzione dell’originale non è una distruzione assoluta e non si crea neanche un divario decisivo nel valore tra originale e copia. Il santuario di Ise, per fare un esempio, è stato riedificato ben 59 volte, praticamente ogni vent’anni: l’edificio nuovo rappresenta l’originale e quando scompare consegna la propria “vita di originale” alla copia, che diventa essa stessa originale.

Difendere la cultura secondo Mishima

“Per difendere la libertà del soggetto creatore e la continuità della vita della cultura bisogna fare una scelta per sistemi di governo. E qui inizia il problema operativo: cosa difendere e come”, spiega Mishima. Cosa significa “difendere”? La cultura non può difendersi da sola. Difendere è sempre un’arma a doppio taglio, perché la difesa comporta inevitabilmente dei pericoli, tanto che persino per difendere sé stessi può diventare indispensabile il sacrificio della propria persona. Lo stesso accade per difendere la pace, azione che richiede sempre di essere pronti alla violenza.

Per difendere la cultura serve allora la forza, così come accade per la difesa di qualsiasi altra cosa. Questa forza deve essere attribuita proprio a chi della cultura è creatore e titolare. L’idea che atti e metodi volti a difendere la pace debbano essere tutti pacifici rappresenta una credenza generalizzata. Inoltre, la natura dell’oggetto da difendere non coincide necessariamente con la sua condizione presente. Nel dire “difendere la pace”, “difendere il sistema parlamentare” o “difendere la nazione”, l’oggetto viene presentato seguendo l’immagine ideale della propria visione del mondo da posizioni opposte, quindi il valore dell’atto di difesa non sta al mantenimento delle condizioni presenti. Di fronte a una minaccia al valore dell’oggetto da difendere, è normale avviare un atto di difesa che comprende in sé una necessità intrinseca di cambiamento radicale rispetto al presente e sia diretto a questo cambiamento. Qualora le condizioni presenti dell’oggetto da difendere siano perfette e si tratti solo di un ente passivo da proteggere, “come nel caso di un diamante da centinaia di carati in un museo”, cioè se nell’oggetto da difendere non esiste soggettività e possibilità di processi vitali, si sfocia nel disfattismo o perfino nella distruzione di ciò che dovrebbe esser difeso. 

Difendere è dar vita e forma

La continuità della vita della cultura risiede non nella “luce smorta di ciò che viene difeso”, ma “in un potere fondante vivo”. Come esito naturale assisteremo così a una “coincidenza di soggetto e oggetto, dove creare sarà difendere”. Per Mishima “difendere” non significa accettare le condizioni presenti o mantenerle, ma già di per sé è rinnovamento e, allo stesso tempo, mitologicamente dar “vita e forma”. Difendere significa agire, quindi c’è bisogno di dotarsi delle capacità fisiche attraverso un addestramento costante.

Come esempio negativo Mishima indica la scarsa preparazione fisica dei letterati moderni e la tendenza a mostrare un interesse al fisico solo in relazione alla malattia e medicinali, attitudini che hanno impoverito la letteratura giapponese “limitandone anche i temi e gli orizzonti”. Personaggi pallidi con un fisico malsano pullulano nella letteratura moderna, come se fossero degli spiriti veri e ciò si ha già dalla fine della guerra in poi dove ci saranno sempre più “torme di malati di insonnia, di nevrotici impotenti, di corpacci deformi per il grasso che gli si è depositato sotto pelle, di malati di cancro, di stomaci deboli, di ipersensibili, di mezzi matti e così via dicendo”. Sono assai rari individui in grado di combattere, ormai l’azione è vista come un pericolo oppure al contrario è sottovalutata. Tutto ciò è una “vecchia fissazione che va dall’epoca del Romanticismo fino al fin de siècle”, attribuendo un “significato metafisico alla malattia seducendo lo spirito”.

Francesco Maria Attolini

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