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Mishima, uno scrittore sublime che si fece samurai

by La Redazione
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Mishima, scrittore

Pubblichiamo un pezzo di Danilo Breschi uscito su Pangea il 4 agosto scorso

Atto IV – L’artista che si fece samurai per tradizione e romanticismo

Mishima non fu suicida perché, ad un certo punto, non accettò più la sua vita. La mattina presto del 25 novembre 1970, il giorno in cui avrebbe compiuto il rito del seppuku, prima di uscire dallo studio lasciava sulla scrivania il seguente appunto: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre». Sul tavolino dell’anticamera, poi, lasciava in evidenza il manoscritto dell’ultimo volume della tetralogia, in tal modo rispettando, come sempre aveva fatto, la data di consegna pattuita con l’editore. Marguerite Yourcenar ha così commentato quella frase di commiato: «Frase caratteristica di tutti gli esseri tanto ardenti da essere insaziabili. A pensarvi bene, non c’è contraddizione tra il fatto che quelle poche parole siano state scritte all’alba e il fatto che l’uomo che le ha scritte sarà morto prima della fine della mattinata».

In un’intervista televisiva del 1966 Mishima aveva ricordato Rilke e la sua convinzione che l’uomo moderno fosse oramai incapace di morire in modo romantico. Sapeva solo rassegnarsi al commiato fatale nell’ovatta di una stanza d’ospedale, ingabbiato come un’ape in una cella. Lo scrittore giapponese aggiunse che morire per quel che un tempo si chiamava «una nobile causa» continuava ad essere «il più splendido, eroico modo di morire». Per una vita ben vissuta da sempre occorre possedere dentro di sé valori che oltrepassino la propria singola esistenza, una comoda e banale sopravvivenza. Disposizione psicologica, proseguiva Mishima, resa impraticabile in tempi di democrazia, regime sociale e politico che di nobiltà e di ideali non intende affatto nutrirsi, cosicché la vita degli individui perde significato ed è afflitta da noia e costretta ad una sterile dissipazione tra tempo libero e industria del divertimento. Con ciò lo scrittore giapponese scelse una posizione oltremodo sconveniente, per i suoi tempi come per i nostri.

In Giappone come in Occidente ciò che della vicenda Mishima ha fatto realmente scandalo è stato, e continua ad essere, il suo nazionalismo, il suo culto dell’imperatore, la critica di uno stile di vita dominato dal materialismo e la ricerca di una qualche rinascita spirituale, la sua avversione ai valori di una modernità democratica, egualitaria ed americanizzata, dei cui strumenti pur si avvalse per portare alla massima notorietà la propria opera e la propria persona. Usò, ma non fu usato, perché restò in fondo impermeabile a quanto accadeva alla società giapponese. Più questa si modernizzava, più lui si faceva reazionario, senza smettere di sorridere ed essere gentile. Cortese nei modi, inflessibile nei principi. Una frizione tra contenente e contenuto che continua a stridere da allora ad oggi.

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Anche in quella intervista televisiva del 1966 si manifesta in tutta la sua solare evidenza un’ambivalenza di fondo tra il soggetto Mishima e il suo predicato. La tanta ombra di tanta luce. Come scrisse Goethe: «Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera». In quella intervista si avverte una disciplinata serietà, quasi ossessivamente assertiva, nelle parole e nei concetti espressi, che vengono pronunciati con una determinazione intaccata dalla frequente necessità di deglutire. Pronunciati da un uomo che mostra assai meno della sua età, abbigliato in modo semplice e secondo la moda occidentale, tanto che pare quasi un giovinetto, timido e un po’ impacciato, il quale, emozionato, ripeta una lezione mandata a memoria. C’è della goffaggine, ad esser sinceri, in quella intervista, di quella che suscita tenerezza perché rivela un animo dolce e gentile. È un aspetto, questo, che Henry Miller non seppe cogliere, non di certo quando ebbe la fugace occasione di incontrarlo, tanto meno quando, alla notizia del clamoroso suicidio, si interrogò attentamente sulla natura e le motivazioni del “collega” nipponico. Scrisse delle comunque interessanti Reflections on the Death of Mishima, pubblicate nel 1972, ma solo in minima parte centrate, tutt’altro che esaurienti. Troppo distanti culturalmente le due coste del Pacifico, quella giapponese e quella californiana, nella regione centrale di Big Sur, dove Miller si era rifugiato in certa di mistica rigenerazione non facendo altro, però, che portare una mentalità già postmoderna dall’East alla West Coast.

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Un alieno, Mishima, un fuori posto che smania ed eccede per soffocare un disagio piuttosto che per adagiarsi sopra un tempo che smania ed eccesso chiede e concede alle nuove generazioni degli anni Sessanta. Questa è l’impressione che mi lascia anche un’attenta analisi dei filmati in cui Mishima parla e si spiega. Guardateli: il volto e lo sguardo sono gli stessi di una fotografia che lo ritrae da piccolo, all’incirca all’età di sei/sette anni. Ancora da quarantenne la luce che emana dai suoi occhi lo fa sembrare un pulcino bagnato, a tratti spaurito, eppure nelle parole emerge un uomo animato da una ferrea determinazione, da una volontà d’acciaio. Pertanto il narcisismo da esteta si rivela categoria parapsicologica del tutto inadeguata a penetrare l’anima di Mishima. Un’anima che, a seconda di come la guardi, pare profondamente aggrovigliata e torbida, oppure liscia, limpida e trasparente, quasi rasserenata nella persuasione di avere fatto la scelta più giusta. Si tratta solo di portarla a compimento.

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Cosa sconcerta? Che un volto ancora fanciullesco affermi con tranquillità il senso di bellezza suscitatogli dai ricordi del periodo bellico, quando la morte era una quotidiana minaccia incombente. Non dovrebbe però stupire lo storico, semmai suggerirci un elemento di riflessione su cosa sia stata, su cosa abbia sperimentato ed ereditato la generazione di giovani giapponesi vissuta a cavallo tra 1941 e 1951, dallo scoppio della guerra contro gli Stati Uniti d’America al bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki fino all’occupazione americana, al protettorato settennale del generale MacArthur, la conseguente fine della monarchia assoluta e di ascendenza divina, con annesso impero coloniale, la smilitarizzazione e democratizzazione della società nipponica.

Jieitai, questo il nome giapponese delle Forze di autodifesa del Giappone (in inglese Japan Self-Defense Forces). Sono l’insieme delle forze armate nipponiche create dopo la fine della seconda guerra mondiale secondo le disposizioni delle potenze vincitrici, in particolare Stati Uniti d’America e Regno Unito. Secondo quanto sancito dall’articolo 9 della Costituzione adottata nel 1946, «il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia di un uso della forza per risolvere le dispute internazionali». Inoltre «i potenziali di forze terrestri, aeree o navali non saranno mai mantenuti». Per l’evolversi della Guerra fredda tra 1952 e 1954 il governo giapponese, sentendosi non adeguatamente protetto dagli Usa, sviluppò la forza per la sicurezza nazionale originariamente istituita per mansioni di polizia e sicurezza interna. Lo Jieitai crebbe nei decenni successivi in dimensioni ed organizzazione, anche se la terminologia usata fu sempre quella dell’“autodifesa” per non favorire il ritorno del militarismo, tenuto sotto osservazione dalla potenza americana.

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Dal 1966 Mishima si avvalse della possibilità offerta dallo Jieitai per fare ripetute esercitazioni militari, compresa la guida di carri armati. Dal 1968 in queste esercitazioni coinvolse anche i giovani aderenti alla Tate no kaiAssociazione (o Società) degli scudi, la personale milizia che aveva ufficialmente creato nell’ottobre di quello stesso anno. L’intento finale del Tate no kai fu esplicitato nel proclama il cui testo fu letto da Mishima pochi minuti prima del seppuku, ritto in piedi sul balcone dell’ufficio del generale Mashita. Come la Yourcenar ha ben colto, lo scrittore e drammaturgo nipponico ha desiderato «moltiplicare le occasioni per esprimere pubblicamente le ragioni della sua morte, affinché non si cerchi, più tardi, di distorcerle o negarle». Rileggiamole dunque, almeno nelle sue parti essenziali: Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima in una condizione di vuoto. Siamo stati costretti, stringendo i denti, ad assistere allo spettacolo della politica totalmente perduta in vischiose contraddizioni, nella difesa di interessi personali, nell’ambizione, nella sete di potere, nell’ipocrisia; abbiamo visto i grandi compiti dello stato delegati a un paese straniero, abbiamo visto l’ingiuria della disfatta subìta nell’ultima guerra non vendicata, ma semplicemente insabbiata, abbiamo visto la storia e la tradizione del Giappone profanate dal suo stesso popolo. Abbiamo sognato che il vero Giappone, i veri giapponesi, il vero spirito dei samurai dimorassero almeno nell’Esercito di difesa nazionale. […] L’idea fondamentale della nostra Associazione è il sacrificio delle nostre vite unicamente al fine che l’Esercito di difesa si desti e si trasformi in un glorioso Esercito nazionale. […] Siamo pochi, ma determinati, e offriamo le nostre vite nella missione di raddrizzare le basi distorte della nazione. […] Dov’è finito il vostro spirito di guerrieri? Qual è il significato di questo esercito, ridotto ormai a un gigantesco deposito d’armi senz’anima? […] Abbiamo intrapreso quest’azione nell’ardente speranza che voi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate ritornare a essere veri uomini, veri guerrieri”.

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Il nodo gordiano dell’enigma Mishima si trova dunque qui, nel fatto che un ancor giovane artista di successo nel Giappone che da quasi un ventennio prospera nella pace e in un crescente benessere economico rimpianga invece i tempi del tennō (天皇), che significa letteralmente “sovrano celeste”. Fino alla disfatta nella seconda guerra mondiale l’imperatore era stato considerato figura divina.

Mishima è uno scrittore fenomenale, che affascina e avvince generazioni vecchie e nuove, non smette di farlo neppure a cinquant’anni dalla sua morte. Ama però la tradizione imperiale e la società antidemocratica, aristocratica, gerarchica e guerriera del Giappone antecedente il 1945. Un amore, una passione viscerale, che cresce nel tempo ed esplode a metà anni Sessanta. Non è dunque per gioco né per vezzo da dandy che nel 1968 egli dette vita alla Tate no kai, una milizia privata che, per statuto, non doveva superare i cento uomini. Date le dimensioni ridotte Mishima si limitò ad assumere il grado di capitano di compagnia. I componenti del Tate no kai erano nella stragrande maggioranza studenti universitari, con i quali, come detto, già da tempo Mishima partecipava a corsi di istruzione e addestramento militare organizzati dall’Esercito di autodifesa nazionale. In quello che è una sorta di manifesto statutario dell’associazione si legge, fra l’altro: «Il Tate no kai è un esercito sempre in allarme. Quando verrà il momento dell’azio­ne non lo so. Potrebbe anche darsi che non venga mai. Ma potrebbe venire anche domani. Fino all’ora il Tate no kai non farà nulla. E non farà neppure dimostrazioni in piazza, non avrà un manifesto, non lancerà bottiglie molotov, non lancerà pietre. Non farà attività contro niente. Non terrà incontri di studio, non parteciperà nulla fuorché all’ultimissima battaglia. È il più piccolo esercito del mondo, fatto da persone rivolte verso i valori dello spirito, con muscoli ben temprati e senza armi».

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Di questo suo esercito personale solo quattro membri (Koga Hiroyasu, Koga Masayoshi, Ogawa Masahiro e Morita Masakatsu) saranno messi al corrente del piano ordito per quel fatidico 25 novembre del 1970, una dimostrazione plateale ed esemplare, piuttosto che un convinto colpo di mano. Al più l’idea di lanciare e lasciare un monito, di assaporare quella gloria vagheggiata in molti suoi romanzi e considerata esperienza oramai interdetta nel Giappone del secondo dopoguerra. Forse anche la non del tutto abbandonata speranza di innescare un’insubordinazione dell’esercito. Chissà! In ogni caso, secondo quanto avevano concordato, Mishima si squarcia il ventre e Morita, che non è riuscito a fare il suo dovere di kaishakunin, si accinge a fare a sua volta seppuku, o meglio: ci prova. Confuso e tremante, non riuscì infatti a sventrarsi col pugnale, ma anche nel suo caso fu Hiroyasu Koga ad effettuare la decapitazione prevista da quel rito auto-sacrificale. La sua testa e quella del maestro, del Sensei, vengono quindi adagiate sul tappeto l’una accanto all’altra, macabre maschere di un inganno terminato.

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Il problema Mishima risiede tutto qui. In quegli ultimi momenti si condensano l’enigma e lo scandalo che rendono ancor oggi difficile un apprezzamento e una valutazione critica dell’opera mishimiana che siano fondate sul documento, ossia la gran mole di pagine scritte, e non sull’emozione o, peggio, sul pregiudizio. Che quest’ultimo sia avverso o favorevole poco cambia, perché in entrambi i casi l’ideologia fa aggio sull’opera, la offusca, ne impedisce il completo dispiegamento. Così rischiamo di relegare in una nicchia uno dei più grandi scrittori del Novecento a livello mondiale. Certo, talora le catacombe dell’underground preservano quel gusto tutto esoterico per un consumo elitario, riservato appunto a pochi iniziati, di cibi prelibati che si ritiene siano dovuti ad antiche e segrete ricette. La lingua, poi, certamente non aiuta, anche se l’Italia può ormai vantare da almeno quarant’anni una scuola di yamatologi, studiosi della lingua e della cultura giapponese, di assoluto prim’ordine. La pubblicazione in due volumi, rispettivamente nel 2003 e nel 2006, dei suoi più importanti romanzi e di alcuni racconti nella collana dei Meridiani della Mondadori ha, per certi versi, sancito la consacrazione di Mishima in Italia. Resta comunque prevalente una lettura difettosa della sua opera, viziata e oscurata dall’ombra ingombrante del personaggio pubblico, non solo romanziere, drammaturgo e poeta, ma anche saggista, sceneggiatore, regista e attore di cinema e teatro, praticante il body-building e le arti marziali del karate e del kendo (disciplina, quest’ultima, in cui raggiunse il quinto dan).

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In sintesi il nodo gordiano credo si sciolga così: nell’epoca in cui nelle società occidentali (o occidentalizzate, come il Giappone) furoreggiavano i fratelli minori dei ribelli senza una causa (Rebel without a cause è il titolo originale di Gioventù bruciata, il celeberrimo film del 1955 con James Dean e Natalie Wood) ci fu uno scrittore di successo che intese rivoltarsi per una causa, morire per un’idea moribonda. Lo fece nel modo più tradizionalista possibile nell’epoca antitradizionalista per eccellenza e nel paese dell’estremo Oriente che, a suo avviso, era stato tramutato nella punta più avanzata dell’estremo Occidente. Un anticonformismo così radicale ed estremo, portato fino al martirio, lasciò molti perplessi ma soprattutto imbarazzati. Come ancora una volta la Yourcenar ha ben sottolineato, «prenderlo sul serio, sarebbe stato rinnegare una supina acquiescenza alla sconfitta e al progresso della modernizzazione, così come alla prosperità che era seguita». Perciò in Giappone le autorità politiche, il mondo della cultura e l’opinione pubblica in generale cercarono di minimizzare, ironizzare e liquidarlo come il gesto di un folle, un «misto assurdo ed eroico di letteratura, teatro e bisogno di far parlare di sé». Eppure l’imbarazzo è persistito nel tempo, anche fuori dal Giappone. Difficile dirsi e farsi davvero ribelli e controcorrente dopo un gesto di tale portata compiuto per motivazioni di simile fattura, risalenti ad una politica sconfitta e ad un passato di cui la gioventù contestatrice si vergognava. La tradizione del samurai, la sua figura mitizzata e la sua etica guerriera di lealtà ed onore fornirono a Mishima l’anello di congiunzione tra la sua vita di successi mondani, ma comunque ordinaria, e la sua opera artistica straordinaria. Incarnare quella figura di samurai più volte ritratta nei suoi scritti, drammi e sceneggiature cinematografiche gli consentì di saldare arte e vita, tramutando il suo corpo appositamente allenato in quel che ritenne l’ultimo suo possibile capolavoro romantico. (Fine Atto IV)

*L’analisi dell’opera e della vita di Mishima Yukio a cura di Danilo Breschi si può leggere qui: Atto IAtto IIAtto III

 

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