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Con lui tornarono le aquile nei cieli di Roma: Napoleone e l’Italia

by Sandro Consolato
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Napoleone

A duecento anni dalla morte di Napoleone, se gli italiani volessero convertirsi anch’essi alla «cultura del piagnisteo» e alla cancel culture, avrebbero buoni motivi per una loro campagna anti-N: basti ricordare i furti di opere d’arte e gli eccidi di Binasco (Lombardia) nel 1796 e di San Severo (Puglia) nel ’99. Purtroppo la storia non è mai esente da lacrime, e quando un fenomeno storico è concluso, occorre decidere se il bene che se ne ebbe fu o meno superiore al male. Foscolo salutò in Napoleone il «liberatore», capì presto che non lo era, ma fu soldato napoleonico fino al 1814. Il miracolo di Napoleone in Italia fu quello, fin dal suo primo apparirvi, di ridestare «un popolo addormentato», come disse Stendhal. Ciò che il còrso davvero liberò furono delle energie senza le quali il Risorgimento avrebbe potuto aspettare forse ancora un cinquantennio, mentre iniziò proprio nel «triennio repubblicano».

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2021

L’Italia nel destino di Napoleone

L’avventura italiana di Napoleone fu anche l’inizio dell’avventura napoleonica tout court. Agli inizi del 1796 il Direttorio gli affidò l’armata d’Italia. Per il Direttorio, l’Italia era soprattutto una terra da saccheggiare per sostenere le esangui finanze francesi e da utilizzare come merce di scambio nelle trattative con l’Austria. Ma Napoleone aveva una sua idea, voleva fare della Penisola quello che Cesare aveva fatto della Gallia: la base per la scalata al potere. Il giacobino Buonarroti, già suo compagno d’armi, lo ammonì di volere il bene dell’Italia o questa sarebbe stata la sua tomba. E a Lodi (10 maggio) Bonaparte aveva detto ai milanesi: «I limiti della Francia non devono oltrepassare le Alpi, vi si lascerà determinare da voi stessi il vostro destino». Così Milano divenne presto il centro di raccolta dei patrioti di tutta Italia. Per volontà di Napoleone, l’Amministrazione generale della Lombardia indiceva un concorso per la migliore dissertazione dedicata a «quale dei governi liberi meglio convenga all’Italia». La partecipazione degli intellettuali fu massiccia: prevalse la tesi della repubblica unitaria e vinse il testo di Melchiorre Gioia, per cui il costituendo primo nucleo repubblicano avrebbe dovuto fare da polo di aggregazione per le regioni d’Italia via via sottratte all’ancien régime.

Leggi anche: «Napoleone misogino e razzista?»: il Primato torna in edicola e fa i conti con la «cancel culture»

L’embrione di uno Stato italiano

L’idea nazionale, dunque, si faceva strada, mentre i francesi già davano ampia prova dei loro sentimenti fraterni con ruberie e prepotenze che cominciavano ad accendere le prime proteste nelle campagne. I patrioti erano stretti tra l’incudine e il martello: la Francia e l’Austria. Malgrado tutto, l’Italia cresceva: non si poteva tornare indietro. Nel gennaio del 1797 il Congresso di Reggio Emilia costituiva la Repubblica cispadana, con il primo tricolore, e già a giugno quella si univa alla Cisalpina, nascendo così uno Stato che si estendeva dalla Lombardia agli ex territori cispadani (Bologna, Ferrara, Modena, Reggio) e a cui anche la Valtellina e il Veneto chiedevano di unirsi. La costituzione della Repubblica era stata voluta da Napoleone, ma il Direttorio era in allarme, poiché riteneva lesivo degli interessi francesi un libero Stato italiano, ancorché alleato della Francia. Dal canto suo, Napoleone aveva fretta di…

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