Roma, 25 giu – Premessa: il nuovo, importante, libro di Giovanni Sessa, Icone del possibile: giardino bosco montagna (Oaks, 2023), si segnala per la sua originalità e per la sua ricchezza argomentativa. Qui, piuttosto che una recensione, cercherò d’indicare, sotto forma di appunti, una serie di aspetti qualificanti del testo di Sessa, aggiungendo qualche ulteriore riflessione.
1) Innanzitutto il libro di Giovanni Sessa affronta l’argomento da una chiarissima prospettiva antidualista, da non leggere però nel senso dell’et-et, beninteso, laddove l’et-et si presti all’equivoco della sintesi conciliatrice. D’altro canto non bisogna nemmeno rifuggire dall’aut-aut, purché non lo s’interpreti come una contrapposizione rigida, o peggio essenzializzata, quanto piuttosto come uno dei modi attraverso i quali si manifesta la physis. Lo stesso et-et può quindi essere ammesso, appunto come uno dei modi della physis. Altrettanto importante è però evitare di cadere nel monismo, il cui rischio supremo, tradizionalmente, è il trionfo dell’indeterminato, della dissoluzione delle differenze. In breve, bisogna intendere la physis come un campo tensionalenel quale tutto può entrare in rapporto, ma in maniera tensiva, che è appunto anche la posizione di Sessa.
Giovanni Sessa e la riscoperta della grecità arcaica
2) Parlare della physis, piuttosto che della natura, come fa Sessa,significa voler recuperare l’arcaico pensiero greco, in vista di un tentativo di dar vita a nuovo inizio dell’origine. Un tentativo di guardare alla natura appunto dalla originaria prospettiva della grecità arcaica, cercando, dunque e al contempo, di renderla nuovamente pensabile nel presente. Quindi, non una physis da intendere come un relitto erudito di epoche irreversibilmente trascorse o come un rimando sterilmente «colto» o intellettualistico, bensì alla stregua di una memoria vivente nel presente.
3) Sessa giustamente legge la physis come dynamis, con ciòalludendo alla straordinaria potenza della natura, al suo essere una immensa riserva di possibili. Da qui appunto il titolo del libro di Sessa, posto per intero sotto il segno del possibile. L’icona rimanda invece all’opera benemerita di Ludwig Klages, il quale, rispetto all’oggetto, in cui la vita s’irrigidisce, perdendo il suo continuo mutare, vedeva appunto nell’immagine ciò che perpetua il divenire della physis. Icone del possibile sono dunque le immagini sempre cangianti della potenza della physis, altro anche dall’ecologia, nella quale, sin dal nome, risuona il logos come potere che dualisticamente divide l’essenza (la riduzione della physis a mero concetto) dall’esistenza (il concreto manifestarsi della physis), finendo così per commettere un fisiocidio (si veda la prefazione di Romano Gasparotti al volume di Sessa).
4) Nel sottotitolo del suo libro, a ulteriore rifiuto di ogni rigido dualismo, che negherebbe alla radice il dinamismo, il rinnovamento della natura nella sua immanenza, Sessa accosta bosco e montagna al giardino, ovvero all’artificialismo tecnico. Natura e cultura, natura e tecnica vengono quindi messe in una relazione non meramente contrastiva, non escludendosi reciprocamente, anche perché per primo nell’uomo natura e cultura, certo in maniera non armonica e pacificata quanto piuttosto spesso problematica, comunque «convivono», coabitano. Si pensi ad Arnold Gehlen che notava come la cultura fosse un concetto appunto antropo-biologico, per cui la cultura dell’uomo non è staccata dalla natura, non è una sfera autonoma, del tutto disancorata dalla natura, ma è a essa strutturalmente intrecciata. L’uomo è quindi un essere diveniente, essendo pienamente coinvolto nel divenire della physis. Qualora però tale legame venisse reciso, ci troveremmo di fronte a una radicale svolta ontologica, ossia alla nascita di una nuova ontologia, a un nuovo statuto ontologico e della natura e dell’uomo.
Socrate, Platone e Aristotele
5) Per l’originario pensiero della physis l’uomoera pienamente parte di quest’ultima. Ricostruendo, in maniera ovviamente assai cursoria, tale genealogia, si può iniziare con Anassimandro, che riteneva che gli uomini provenissero dai pesci o da altri animali simili ai pesci (vedi DK 12 A 11 e 30). E in effetti, in tutti gli altri cosiddetti presocratici, l’uomo è sempre immerso nella physis, non occupando, rispetto a quest’ultima, un posto particolarmente privilegiato.
E anche la cosiddetta «svolta antropocentrica» dei sofisti è più un luogo comune storiografico che altro; ad esempio Mauro Bonazzi nota come con la sofistica sia la prospettiva a cambiare, non gli argomenti trattati, nel senso che l’uomo non è per così dire toltodalla physis per essere studiato in totale autonomia, tant’è vero che sempre Bonazzi arriva ad affermare che «la physis in quanto tale rimane, è il punto di partenza per ogni ricerca».
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Lo stesso Socrate, com’è noto, si era interessato alla filosofia di Anassagora; a parte i notissimi passi aristofanei delle Nuvole, dove le nuvole sembrano rimandare – a notarlo è Maria Michela Sassi – alle «implicazioni ateistiche di uno studio dei fenomeni naturali», ci sono i passi altrettanto celebri del Fedone (96a-99c), dove Socrate ricorda di avere avuto interesse da giovane per la «ricerca sulla natura» (historia perì physeos) e in particolare appunto per la filosofia di Anassagora.
Questione assai diversa con Platone. Le idee platoniche, secondo Mario Vegetti, nascono in primis nell’ambito dei «valori etici» (bello, giusto, buono) o in quello epistemico delle matematiche (eguale ecc.). Pertanto risulta assai difficile l’estensione del rapporto idee-cose al mondo degli oggetti naturali, compreso l’uomo. Ciò spiegherebbe il ricorso al programma cosmogonico delineato nel Timeo, con l’intervento, non casuale, di un vero e proprio artigiano (il Demiurgo) che, pur non creando dal nulla, comunque, proprio in quanto artigiano, dà vita a un chiaro artificialismo tecnico. Ed ecco perché il Platone medievale, grazie al celebre Commento al Timeo di Calcidio, fu appunto soprattutto quello del Timeo, che si prestava agevolmente ad essere riletto – è sempre Vegetti a sostenerlo – all’interno della teologia creazionista cristiana.
Al contrario, non credo sia una forzatura ricordare come il pensiero biologico aristotelico affondi le sue radici proprio nella tradizione naturalistica presocratica, dalla quale lo Stagirita deriva la concezione della physis come una realtà dotata di un ordine e di un’esistenza autonome. Non a caso, la definizione dell’uomo in Aristotele fa riferimento all’ambiente zoologico e non a quello antropologico. L’essere umano è trattato come uno degli animali; in breve, non è al centro del processo naturale ma è semplicemente una delle sue parti. L’uomo nasce nella zoosfera per poi differenziarsene, ma alla base c’è, come in Anassimandro, l’idea di una continuità tra uomo e animale. Tant’è vero che l’uomo, persino in quanto animale politico, condivide appunto la politicità con altri animali, com’è spiegato in un fondamentale passaggio della Historia animalium(I 1, 488a), dove si dice che ci sono animali che vivono da soli e altri in comunità, e altri che possono vivere in entrambi i modi. L’uomo può vivere in entrambi i modi, e nel suo aspetto comunitario è paragonato ad api, vespe, formiche, gru. Per cui, essendo appunto soltanto il logos ciò che davvero differenzia l’uomo da tutti gli altri animali, la vera antropogenesi è data dunque dal logos stesso (si veda Politica, 1253a 9-18). Solo il logos rappresenta il fattore davvero dirimente/discriminante che segna lo «stacco» decisivo dell’uomo dalla zoosfera.
L’ambiguità di Prometeo e il dilemma della tecnica
6) Chiudo questi brevissimi appunti con una addenda, altrettanto schematica, sul Prometeo platonico, partendo però dal presupposto, condiviso da Sessa, che il Titano non vada isolato, o valorizzato unilateralmente, almeno se si vuole restare fedeli alla sua matrice originaria greca, ma piuttosto calato all’interno di una prospettiva molto più ampia nella quale, ad esempio, entrerebbe in rapporto, seppur in maniera mai lineare e pacificata, anche con Orfeo, di contro alle note tesi di Pierre Hadot. E questo perché il mondo greco, nella sua chiaroscuralità, dà spazio agli opposti, in una loro sempre precaria, fragile relazione.
Ora, ricordando di sfuggita che in realtà anche il mito dell’Androgino, narrato da Aristofane nel Simposio, racconta la condizione direi ontologica e insieme esistenziale dell’uomo, ovvero la sua parabola da una perduta pienezza e unità, all’attuale mancanza e al desiderio (impossibile?) di ritornare a quella originaria pienezza, su Prometeo va subito detto, sulla scorta di Jean-Pierre Vernant, che vi è una ambiguità, una duplicità costitutiva del Titano già messa in luce da Esiodo, là dove Prometeo è insieme il «valente figlio di Giapeto», benefattore dell’umanità, e l’essere «dai pensieri scaltri», origine delle sventure dell’uomo. E, per inciso, bisogna ricordare che anche Pandora è un prodotto tecnico, opera di un demiurgo che la fabbrica con la terra, che nelle varianti è ora Efesto, ora Epimenide, ora lo stesso Prometeo. Sempre Pandora è indistricabile da Prometeo, nel senso che – a dirlo è Umberto Curi – a essere causa dei mali dell’uomo non è la sprovvedutezza dell’insipiente Epimeteo, ma la filantropia di Prometeo, perché senza il sacrilegio di quest’ultimo mai l’umanità avrebbe conosciuto i «luttuosi affanni» di cui Pandora è stata il tramite.
Venendo a Platone, Prometeo compare in quei passi del Politico 274c-d, dove, venuto meno il regno di Crono, che permetteva loro di condurre una vita beata, priva di dolori e di pena, gli uomini, rimasti deboli e preda degli animali, privi di mezzi e di arte (techne), vengono aiutati appunto da Prometeo, Efesto, Atena ed «altri». Questo significa che A) la techne è figlia di uno stato d’indigenza, di cronica debolezza, di mancanza e B) che in effetti le technai di Prometeo (il fuoco), Efesto e Atena (la metallurgia) e di «altri» (le tecniche dell’agricoltura) non bastano, perché l’arte davvero necessaria, davvero fondamentale, la basilikè techne, l’arte regia, è la politica. Di conseguenza, anche il dono di Prometeo è di per sé non solo insufficiente, in tal modo ridimensionando nettamente la presunta capacità «soteriologica» del fuoco, ma anche subordinato all’arte regia.
Nel Protagora il racconto è noto: gli dèi affidano ai due fratelli la distribuzione dei beni ai viventi; i due fratelli si accordano sul fatto che sia Epimeteo l’incaricato alla distribuzione che però mal riesce, lasciando l’uomo carente di ogni mezzo idoneo alla sua sopravvivenza, così da spingere Prometeo a rubare il fuoco per donarlo agli uomini, con un singolare ribaltamento dei ruoli, da esecutore dei comandi di Zeus a suo violatore. Da qui, come nota sempre Curi, emerge «una sorta di teoria del progresso», col passaggio dell’uomo dalla condizione in cui si trovava con Epimeteo a quella in cui si trova con Prometeo, con ciò rovesciando l’impostazione regressiva esiodea, nella quale è Epimeteo a succedere al fratello. Ma il punto è che i doni sottratti alle divinità non bastano all’uomo, che, ancora una volta, ha bisogno dell’arte politica, della politikè techne, per cui Zeus invia Ermes col compito di portare all’uomo pudore e giustizia atti a funzionare come poleis kosmoi, come ordinamenti delle città degli uomini (Protagora 322b-c). Quindi, di nuovo, i doni della tecnica non sono sufficienti a salvare un’umanità intrinsecamente difettiva, mancante. Anzi, è proprio la tecnica a rendere consapevoli di questa inidoneità dell’uomo a sopravvivere. E come sottolineato sempre da Curi, in questa versione del mito prometeico è dunque Zeus ad apparire davvero philanthropos, in quanto sono i suoi doni a consentire la sopravvivenza dell’uomo.
Infine, il ruolo e la funzione delle tecniche, sempre in questo caso, escono drasticamente ridimensionate, perché da un lato sono inferiori alla physis, di cui non riescono ad eguagliare le potenzialità, dall’altro sono del tutto subalterne alla politica. Insomma, la tecnica risulta essere davvero un doron-dolon, un dono ingannatore, foriero di mali, perché illude di una salvezza che non può in fondo elargire. In estrema sintesi, abbiamo da un lato la necessità della tecnica, dall’altro il lucido disincanto rispetto ad essa; da questa relazione, per quanto difficilmente districabile e fors’anche contradditoria, è indispensabile partire, pena il rifugiarsi o in arcadie astoriche o in utopici avventurismi «futuristi».
Giovanni Damiano