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Banche pubbliche o banche private?

by Filippo Burla
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aaaaRoma, 8 mar – Nel 2009, un l’economista Farid Khavari si è candidato a governatore della Florida con un programma centrato sulla fondazione di una banca pubblica che, prestando alle imprese al tasso modesto del 3-4%, avrebbe potuto risanare le finanze dello Stato ed al contempo dare nuovo impulso allo sviluppo locale. Non ha avuto successo, ma è il principio di base quello che conta: persino negli Usa qualcuno inizia a pensare che la liberalizzazione del settore finanziario sia stata un errore clamoroso. Ed è chiaro, del resto: se le banche dirigono il credito verso i consumi, i mutui ipotecari e la speculazione finanziaria non danno alcun contributo reale alla crescita, limitandosi a gonfiare sempre nuove bolle speculative, la cui esplosione è in grado potenzialmente di innescare una crisi. Infatti, quando il sistema bancario si trova stipato di crediti inesigibili, abbiamo il fenomeno cosiddetto del credith crunch, con le banche che rifiutano nuovi crediti e l’economia in recessione per mancanza di liquidità.

Certo, il governo di uno Stato a moneta sovrana può compensare la deflazione incrementando i propri disavanzi ed usando la propria Banca centrale per “garantirli” (in pratica, stampare moneta) e così rimettere in moto l’economia reale, ma la vera domanda che ci dobbiamo porre è: perché mai dovremmo sopportare tutti questi disagi? Perché mai dovremmo permettere l’incredibile concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi che la speculazione consente? Perché mai dovremmo rimanere indifferenti davanti all’iperinflazione degli asset finanziari ed immobiliari avvenuta nell’ultimo quarto di secolo? La verità è una sola: il settore finanziario va rimesso sotto il controllo diretto o indiretto dello Stato. Partendo, ovviamente, dalle banche maggiori, quelle too big to fail come in Italia Unicredit e Intesa San Paolo ed altre che devono semplicemente essere nazionalizzate e fuse in un unico istituto a capitale pubblico autorizzato a finanziare esclusivamente imprese italiane. Chi scrive è altresì convinto che la riforma finanziaria proposta dall’ingegnere americano Jim Bovery (che riprende la proposta analoga del premio Nobel Maurice Allais) possa integrarsi perfettamente con l’idea di subordinare nuovamente il settore finanziario alla politica. In pratica si tratterebbe di sostituire l’Irpef -e quindi la tassazione sul lavoro- con una imposta proporzionale al 3% circa direttamente sul valore di mercato degli asset finanziari ed immobiliari, disincentivando pesantemente la rendita. L’idea è quella di una patrimoniale permanente al netto dei debiti che per sua stessa natura ha un effetto redistributivo in favore delle fasce più deboli della popolazione. Se sono titoli è facile da calcolare, se sono immobili o quote di società si dovrebbe applicare il valore di liquidazione sul mercato.

Il risultato sarebbe un enorme impulso ai consumi ed investimenti, a spese di un taglio della rendita, un trasferimento di ricchezza da chi investe, produce e spende poco a chi investe, produce e spende molto. Non dimentichiamoci che più una persona è ricca e meno in proporzione spende ed investe, ed è questo il motivo per cui l’incremento delle disparità sociali alla fine danneggia persino i ricchi stessi, in particolare se imprenditori e non banalmente parassiti e redditieri. Oltretutto, questa nuova imposta avrebbe anche il pregio di adeguare automaticamente le entrate dell’erario alla situazione economica, incrementando il disavanzo pubblico in caso di difficoltà economiche, aiutando l’economia reale. Certo, sia la nazionalizzazione delle banche più grosse che la tassazione degli asset finanziari ed immobiliari da particolarmente fastidio alle banche ed ai fondi speculativi (genericamente intesi), ovvero a coloro che effettivamente detengono in occidente il potere reale. Ma, come dire? Ce ne faremo una ragione, dato che fino a prova contraria la politica ha come unico scopo il governo della comunità nazionale nell’interesse dei cittadini-produttori da cui essa stessa trae la sua ricchezza.

Matteo Rovatti

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Alla ricerca della sovranità: cinque punti per l’Italia | IL PRIMATO NAZIONALE 23 Agosto 2014 - 10:13

[…] In un precedente articolo abbiamo affrontato nel dettaglio l’idea di una net asset tax in sostituzione dell’Irpef, che si configuri come una sorta di patrimoniale permanente al 3% (al netto dei debiti ovviamente). Ci limitiamo qui a ricordare come in Italia (in cui pure la situazione è decisamente migliore rispetto ad altre nazioni come Usa, Regno Unito e Germania) il 10% della popolazione detiene il 45% della ricchezza, e che quindi l’introduzione di una simile forma di tassazione avrebbe un dirompente effetto redistributivo in favore dei consumi e degli investimenti, dato che più una persona è ricca più tende a tesaurizzare acquistando (prevalentemente) asset finanziari ed immobiliari. In Italia la ricchezza al netto dei debiti è di 5500 miliardi, 5000 se si pensa di prevedere una soglia minima al di sotto della quale l’imposta non venga riscossa. Ebbene, con un gettito di 150 miliardi all’anno è più che fattibile eliminare completamente l’Irpef, l’odiosa imposta sul reddito che penalizza il lavoro e tende a favorire chi è anziano, non ha debiti e vive di rendita. […]

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