Roma, 16 apr – L’avvio di processi di deglobalizzazione può far tornare protagonista il mar Mediterraneo a tutto vantaggio dei porti italiani. Questo è quanto emerge dal documento pubblicato da Cassa depositi e Prestiti dal titolo Deglobalizzazione e Mar Mediterraneo: quale ruolo per l’Italia? Prima di approfondire questo punto dobbiamo analizzare meglio i termini sin qui elencati. Iniziamo dalla deglobalizzazione ossia la “regionalizzazione dei commerci”.
Deglobalizzazione: un’inversione di rotta?
La pandemia ha accorciato le catene di approvvigionamento. Le filiere si stanno “semplificando” per ridurre il rischio di interruzioni alle forniture e “accorciando” per restare vicine ai mercati di destinazione. Il processo di deglobalizzazione è dovuto da un lato alle ambizioni di autosufficienza tecnologica della Cina, e dall’altro dai piani dell’Occidente per ridurre la propria dipendenza industriale da paesi potenzialmente ostili mettendo in sicurezza le filiere strategiche per la sicurezza economica e nazionale.
E allora si parla di reshoring e friend-shoring. Nel primo caso intendiamo il ritorno in patria della manifattura precedentemente delocalizzata. Nel secondo, invece, l’installazione di singoli anelli della supply chain in paesi alleati o politicamente affini e affidabili, in modo da ridurre il rischio di crisi degli approvvigionamenti.
La re-industrializzazione selettiva è oggi indicata esplicitamente come obiettivo sia delle politiche statunitensi (da ultimo nell’Inflation Reduction Act approvato ad agosto 2022 e in corso di implementazione), sia europee (è dello scorso febbraio la presentazione del Green Deal Industrial Plan da parte della Commissione), per accompagnare le transizioni digitali ed ecologiche.
La ricostruzione di capacità produttiva in Occidente non è tuttavia priva di ostacoli. Innanzitutto, perché “riportare a casa” (il cd. reshoring) parti delle catene di approvvigionamento precedentemente delocalizzate potrebbe non bastare a ridurre la dipendenza dall’estero. Basti pensare alla costruzione di impianti per la produzione di batterie che servirebbe a poco senza possedere il litio minerale chiave per il loro funzionamento.
Insomma, non è così facile riportare la produzione all’interno dei confini degli stati nazionali. Allora si cercano strade alternative. Alla re-industrializzazione, si affianca dunque l’opzione di diversificazione delle fonti estere di approvvigionamento, attraverso la ricerca di partner geograficamente più vicini e politicamente più “affidabili” (il cd. friendshoring), da inserire all’interno di una nuova configurazione delle catene di fornitura. Stiamo così entrando in una nuova fase della globalizzazione, con filiere meno frammentate del passato e con rapporti di scambio più selettivi, in cui le ragioni economiche dell’efficienza dovranno trovare un nuovo equilibrio con interessi di natura più generale. Ecco perché il Mediterraneo torna protagonista.
Il ritorno della centralità del Mediterraneo
L’area del Mediterraneo gioca già oggi un ruolo di prim’ordine all’interno delle relazioni commerciali europee e, in particolare, in quelle delle grandi economie Ue che si affacciano sulle coste mediterranee, inclusa l’Italia. Infatti, la regione rappresenta circa il 9% dell’interscambio esterno all’Ue, in costante crescita dalla metà degli anni ’90 in poi.
Nello scenario descritto, per le imprese con mercato di sbocco principalmente europeo la rilocalizzazione potrebbe orientarsi sull’Europa orientale (in particolare Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria), ma anche nell’area del Mediterraneo (in particolare, Nord Africa, Turchia e Balcani occidentali). Nel processo di accorciamento e diversificazione delle loro catene di fornitura, le imprese europee possono contare su diversi fattori competitivi – oltre alla vicinanza geografica – che caratterizzano i Paesi extra Ue affacciati sul Mediterraneo.
Il costo del lavoro più contenuto è un fattore competitivo su cui i Paesi mediterranei possono far leva per intercettare nuovi investimenti produttivi (anche di rientro). Oggi infatti vengono pagati di più gli operai cinesi rispetto a quelli dei paesi del Nord Africa o dei Balcani. E questo è sicuramente un fattore di attrazione.
Infine, un ulteriore elemento di competitività per le sponde non europee del Mediterraneo è legato alla dotazione infrastrutturale, soprattutto in ambito logistico-portuale. Particolarmente emblematico, in tal senso, il caso del Marocco che negli ultimi due decenni ha incentrato la sua strategia di posizionamento nelle catene globali del valore sullo sviluppo di infrastrutture di eccellenza, come il porto di Tanger Med.
La sfida per i porti italiani
Secondo gli analisti di Cdp: “Il rallentamento della globalizzazione, il venir meno di differenze salariali con la Cina e una tendenza al friendshoring stanno rendendo i porti del Mediterraneo sempre più strategici”.
L’Italia può sfruttare a proprio vantaggio la tendenza alla regionalizzazione dei commerci grazie ai suoi porti e alla “sua leadership indiscussa nel traffico marittimo a corto raggio, ossia una modalità di trasporto pienamente in linea con le esigenze del commercio regionale”. Stando ai dati Eurostat, infatti, l’Italia è il primo paese europeo per volume di merci movimentate con una quota del 14 per cento; seguono i Paesi Bassi con il 13,5 per cento, la Spagna con il 10% e la Francia con il 7%.
C’è da dire che il vantaggio che l’Italia ha sulle rotte a corto raggio non basta per sfruttare al meglio i vantaggi che può portare questa fase storica. Per migliorare la competitività del sistema portuale, Cdp raccomanda quattro interventi. Vediamo quali.
In primis, bisogna migliorare l’efficienza dei servizi portuali, riducendo i tempi di stazionamento delle navi. Il tempo medio di attesa nei porti italiani è di 1,34 giorni, molto più lungo rispetto alla Spagna (0,9 giorni) e ai Paesi Bassi (0,62 giorni).
In secundis, è necessario potenziare le infrastrutture e i servizi per l’intermodalità, fondamentali per il rilancio e lo smistamento dei carichi portuali. Solo due dei cinque principali porti italiani sono collegati direttamente alla rete ferroviaria nazionale.
Terzo, serve sviluppare le aree retroportuali implementando le Zone economiche speciali (ZES) e le Zone logistiche speciali (ZLS), in modo da incoraggiare gli investimenti e l’installazione di nuove aziende.
Infine, corre l’obbligo di promuovere l’efficientamento energetico degli scali in un’ottica di sostenibilità: deve puntare innanzitutto sul cold ironing (l’elettrificazione delle banchine per consentire lo spegnimento dei motori delle navi ferme in porto) e sullo sviluppo di infrastrutture per accogliere imbarcazioni alimentate a gas liquefatto, a idrogeno e ad ammoniaca. “A fine 2021”, nota Cdp, “in Italia c’erano solo due banchine dotate di servizi di alimentazione onshore contro le 145 dei Paesi Bassi”.
Insomma, c’è un bel da fare per il ministero del Mare. Infatti, è di fondamentale importanza intercettare le nuove traiettorie segnate dalla deglobalizzazione per tornare ad essere protagonisti nel nostro mare.
Salvatore Recupero