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Sanac, a rischio 400 lavoratori: ecco i primi effetti del caso Ilva

by Salvatore Recupero
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Roma, 12 ott –  Sanac è un’azienda (con sedi a Massa, Vado Ligure, Gattinara e Assemini) che produce refrattari di acciaio dipendente per il 70% da Ilva. Oggi, la scelta di Arcelor Mittal rischia di mettere in pericolo il posto anche ai 400 dipendenti che attualmente vi lavorano. In pratica, se gli indiani faranno un passo indietro su Taranto è difficile che possano rilevare Sanac. Il futuro dei lavoratori di quest’ultima è appeso ad un filo, nei prossimi giorni manifesteranno davanti al ministero dello Sviluppo economico. Senza sminuire la questione occupazionale, il tessuto produttivo italiano perderà un’altra eccellenza. Vediamo perché.

Sanac: la storia di un’eccellenza nazionale

Sanac è leader in Italia nel settore dei refrattari con circa il 35% del mercato nazionale. Con 4 unità produttive produce un’ampia gamma di prodotti necessari a coprire la quasi totalità dei settori di utilizzo dei refrattari. La Società Anonima Nazionale Argille e Caolini (questo il nome per esteso) è stata fondata nel 1939 per volontà dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale).

La suicida politica di privatizzazioni portò l’azienda nelle mani della famiglia Riva. In soli venti anni la Sanac, che era riuscita a rimanere in piedi nonostante la seconda guerra mondiale, finisce in amministrazione straordinaria. Da quel momento inizia un calvario che non conosce sosta. Il motivo è semplice: calano le commesse (che dipendevano dallo stabilimento tarantino) la produzione si riduce e i dipendenti diventano esuberi. Per questo a metà novembre, l’azienda ha annunciato la cassa integrazione per 343 dipendenti in attesa dell’offerta di acquisto di Arcelor Mittal prorogata al 20 dicembre. Al momento Sanac ha quattro stabilimenti in tutta Italia: il più grande è quello di Massa con 120 dipendenti, poi c’è la piemontese Gattinara (102), Vado Ligure (80) e Assemini con circa 70 lavoratori.

Il legame con l’Ilva e le preoccupazioni dei lavoratori

Come si può facilmente dedurre il futuro dell’ex partecipata di Stato è legato a quello di Taranto. A Massa si vivono le più grandi tensioni. Il dirigente della Cisl provinciale Stefano Tenerini ha dichiarato al quotidiano La Nazione: “Loro sono più di 10mila, noi come Sanac nei quattro stabilimenti non arriviamo a 400 quindi dobbiamo stare uniti se vogliamo contare. Dobbiamo cercare di pesare politicamente, visto che è lo Stato il nostro datore di lavoro attuale”.

Anche in Sardegna si respira la stessa aria. È forte la preoccupazione per il destino dei circa cento lavoratori (70 diretti più indotto) dello stabilimento di Macchiareddu, nel comune di Assemini. Estero su una superficie di circa 16 ettari, con 23.000 metri quadrati coperti, dispone di più linee di macinazione e miscelazione delle materie prime, di una decina di presse oleodinamiche automatiche e di una linea di essiccazione (forno alimentato a Gpl) per prodotti speciali e una di cottura per mattoni tradizionali: “Sanac produce mattoni refrattari per Ilva ma se chiudono i forni – spiega all’ANSA Giampiero Manca della Cgil – la produzione diventa inutile. Ci stiamo già attivando: non dobbiamo perdere nemmeno un posto di lavoro”.

Le rassicurazioni del governo e degli enti locali non bastano a tranquillizzare i lavoratori. Nessuno in fondo può stupirsi. L’Italia dopo le nefaste politiche di privatizzazioni dei primi anni novanta ha lasciato questo settore strategico in balia di sé stesso.

Ci sarà un futuro per l’acciaio italiano?

La Finsider era la società del Gruppo IRI che operava nel settore siderurgico e che aveva rilevato dalle banche il controllo dell’Ilva, delle Acciaierie di Cornigliano, della Terni e della Dalmine. L’Italia, grazie alla società del gruppo Iri, poteva contare su alcuni impianti che garantivano l’acciaio necessario per soddisfare il fabbisogno italiano ma anche europeo.

Poi arrivarono i Riva e gli indiani di Arcelor Mittal. Il caos a cui stiamo assistendo potrebbe causare la perdita dell’1,5% del Pil legato all’acciaio, la distruzione di 10.700 posti di lavoro diretti e decine di migliaia indiretti. Come uscire da questa gabbia? Le risposte che vengono date un po’ da tutti i partiti sono alquanto balzane. C’è chi come Beppe Grillo auspica la trasformazione dello stabilimento pugliese il relativo indotto in una specie di museo. I renziani pensano di cavarsela rimettendo in piedi il cosiddetto scudo penale.

In realtà solo pochi sono pronti ad andare in fondo proponendo la nazionalizzazione del sito. Ed è strano che sia così. Non esiste, infatti, un privato (in questo caso una multinazionale indiana) che sia disposto a fare delle politiche di bonifica ambientale senza avere nulla in cambio. Senza contare che il caso Ilva è solo la punta di un iceberg. Per questo manca una vera politica industriale e ogni mossa è frutto dell’improvvisazione. Il teatrino di questi giorni quindi non deve stupirci, è solo la conseguenza di uno stato latitante.

Salvatore Recupero

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