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Bloccare i fondi all’Isis? Non serve. Ecco perché

by Melania Fiori
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AfghanHigh_0023-2Roma, 13 gen – L’attentato di Parigi al Charlie Hebdo ha riaperto la spasmodica ricerca di metodi di contrasto al terrorismo internazionale di matrice islamica. Così tra le grida democratiche sul web, gli impulsi libertari di chi – fino a qualche ora prima – non sapeva neppure che esistesse Charlie Hebdo e probabilmente sentendone il nome avrà pensato a un franchising di abbigliamento, oltre alle manifestazioni utopiche e fittizie degli stessi capi di Stato e di governo fioriscono le dichiarazioni a cascata di politici, economisti ed esperti di sicurezza su come arginare l’orrore barbarico del terrorismo.

In una sorta di limbo d’innocenza smemorata, nell’amalgama delle argomentazioni, si prescinde da valutazioni di merito sulla responsabilità che la politica internazionale europea e occidentale in genere ha avuto nel processo di destabilizzazione medio-orientale e nelle sue conseguenze e ci si dirige nuovamente verso la soluzione a un problema che sembra creato solo da altri.
Torna in particolare in auge il tema del finanziamento al terrorismo, la necessità di congelamento di quei fondi bancari di natura sospetta che sembrano alla base delle capacità dell’Isis o più in generale di Al-Qaeda di tenere sotto scacco l’occidente.

La logica è semplice il terrorismo ha bisogno di risorse, è una rete di persone e sforzi e come tale deve essere sostentato. Gli stessi attentati non potrebbero essere neppure ipotizzati senza risorse. Il mondo occidentale ha la soluzione in tasca e passa attraverso due vie: inserimento dei terroristi o presunti tali nelle Black list internazionali e congelamento dei beni e dei fondi da questi detenuti. Le Black list si compongono di elenchi di persone fisiche o giuridiche anche solo sospettate di finanziare il terrorismo internazionale e, in caso d’inserimento nella lista, il congelamento è automatico, inoltre non prevede meccanismi di ricorso immediato.

Il sistema di congelamento, fortemente voluto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e assorbito in pieno dall’Unione Europea, oltre a contravvenire molte delle garanzie giuridiche nei confronti della libertà individuale, ha un’efficacia limita dal fatto che si tratta di misure applicabili a fondi e beni inseriti nel circuito bancario tradizionale.

Il terrorismo a matrice islamica ha superato egregiamente questa barriera ricorrendo a un sistema informale di trasferimento di valori conosciuto come Hawala. Tale sistema si fonda essenzialmente su un rapporto di fiducia che permette i trasferimenti di valori, contanti e risorse attraverso una rete di mediatori, gli Hawaladars. In modo schematico e secondo un esempio che riguarda solo un singolo soggetto migrante che abbia intenzione di trasferire somme di denaro al Paese d’origine, il sistema prevede la partecipazione di quattro soggetti: un ordinante possessore della somma da trasferire, due Hawaladars che fungeranno da mediatori, il ricevente della somma. Un soggetto ordinante che vuole trasferire il denaro si metterà in contatto con un Hawaladar nel luogo più vicino, questo raccoglierà dall’ordinante (solitamente sottraendo una piccola commissione) l’ammontare che vuole trasferire e in cambio gli fornirà un codice di autenticazione che l’ordinante comunicherà al beneficiario della somma nel Paese in cui quest’ultimo vive. Il primo Hawaladar si occuperà di informare l’Hawaladar nello Stato del ricevente, dando le disposizioni sui fondi e promettendo il pagamento in una data successiva; l’Hawaladar nella città del ricevente in loco liquiderà il denaro al beneficiario.

Il gioco è fatto. E’ avvenuto un trasferimento di denaro senza che alcun flusso finanziario visibile si sia mosso, destando così il sospetto nelle autorità preposte al controllo delle attività illecite e criminose volte al finanziamento del terrorismo.

Sfruttando l’incompletezza dell’ennesima rigidità burocratica occidentale l’Hawala non solo elude i controlli, ma viene persino utilizzata servendosi dei canali bancari tradizionali, evitando semplicemente trasferimenti diretti ordinante-beneficiario.

Secondo il GAFI (Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale) in Belgio il sistema bancario sarebbe stato utilizzato per trasferire il denaro ricevuto da diversi clienti sul conto bancario di un Hawaladar a Dubai, dalla banca di Dubai il denaro sarebbe poi stato smistato in altri stati del medio-oriente e del Nord Africa. In Svizzera il trasferimento viene dilazionato mensilmente o in date prestabilite. L’Italia avrebbe superato ogni attesa con l’accordo tra Poste Italiane e MoneyGram – società mondiale di servizi finanziari – la quale trasferirebbe i fondi detenuti in Italia presso conti postali in qualsiasi parte del mondo.

Il sistema di controllo dei flussi internazionali di denaro, seppur utile per le ingenti somme, non riesce a tracciare le somme “invisibili” di trasferimenti, che sembrano avere un valore solo familiare. Gli Hawaladars non solo spesso coprono la loro vera funzione attraverso attività regolari (negozi di telefonia, internet point, fruttivendoli, bazar, ecc.), ma godono di caratteristiche di cui le banche sono prive: la fiducia, l’attaccamento alle tradizioni culturali, un senso del dovere nazionale che vede nella concessione del compenso per la transazione agli Hawaladars funzioni più alte di tipo etico religioso.

La fagocitazione di un numero così alto di migranti, anche spesso non direttamente collegati a questo sistema, ha comportato l’accettazione di abitudini e usanze che fungono da arma interna contro il cuore di un’Europa inesistente e inerme. Così mentre prosegue la strenua lotta in direzione delle sanzioni e dei congelamenti, l’Europa vede fluire con le mani legate una delle più ingenti forme di finanziamento al terrorismo.
Nell’immagine dell’Hawala, come il déjà-vu di quel meccanismo usato dai Templari per trasferire valori, risuona l’eco di una crociata che l’Europa sta combattendo solo contro se stessa.

Melania Fiori

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