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«Peggio degli anni ’70»: l’assalto alla Cgil e l’indignazione iperbolica della sinistra

by Adriano Scianca
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Black bloc, assalto

Roma, 13 ott – Una cosa mai vista. Una violenza inaudita. Neanche negli anni ’70. Il florilegio dei commenti della sinistra ai fatti di sabato delinea un paesaggio lunare. Non stiamo parlando del senso e dell’intelligenza politica dell’assalto alla Cgil, che resta un’azione criticabilissima, ma della cornice interpretativa in cui tali avvenimenti vengono posti.

L’assalto alla Cgil: i paragoni improbabili 

Per il candidato sindaco di Roma Roberto Gualtieri, per esempio, «non si sono mai visti eventi così gravi dall’ascesa del fascismo». Il che, alla lettera, significa che le quattro scrivanie rovesciate sabato sono più gravi della guerra civile 1943-45, della scia di sangue del dopoguerra, dei moti per Trieste (6 morti), del terrorismo altoatesino (361 attentati e 21 morti), dei moti di Reggio (6 morti), dell’intera stagione degli anni ’70, della lotta armata e della strategia della tensione, dei fatti del G8 di Genova e così via. Anche Gianni Cuperlo, della direzione nazionale del Pd, ha detto all’Huffpost che «quello che è successo è un attacco senza precedenti, mai accaduto neanche negli anni Settanta in cui la violenza era una costante». Per Marco Minniti, già ministro dell’Interno, «non siamo di fronte ad una protesta degenerata in atti inaccettabili. Si tratta di qualcosa di più, di molto di più. Si chiama “eversione”». Christian Ferrari, segretario generale della Cgil Veneto, ha assicurato che «in tanti hanno rievocato gli anni ’70. È molto peggio». E così via.

Intendiamoci: l’assalto alla sede nazionale del principale sindacato italiano non è un fatto banale, l’impatto simbolico e le conseguenti polemiche erano facilmente preventivabili. Ma è evidente che certi commenti sono del tutto avulsi dalla realtà storica, come se chi li pronuncia fosse nato ieri, come se il passato fosse una pagina bianca. Non solo negli anni ’70 gli assalti alle sedi di partito e alle istituzioni erano frequentissimi, e con ben altro bilancio di sangue, ma persino in questi ultimi anni di violenza politica a bassa intensità abbiamo visto un elenco comunque molto lungo di assalti, agguati, bombe. Nessuno pretende che la sinistra faccia spallucce di fronte ai fatti di sabato, ma l’enfasi evidenziata da certi commenti segnala una rimozione culturale della violenza e del conflitto che è allarmante in chi è figlio di tradizioni politiche novecentesche.

A proposito di “contestualizzazioni”

Prendiamo Minniti, che in una vecchia intervista alla Verità confessò: «Nel 1980, a 24 anni ero segretario del partito Comunista a Reggio Calabria. Dovevi fare il cursus honorum, che a Reggio – dove la federazione non era mai stata espugnata nemmeno durante la rivolta di Ciccio Franco – comprendeva anche il rito di iniziazione dei turni di vigilanza notturna – armati – nella sede cittadina del partito». Vigilanza notturna armata? Oddio, signora mia, dove andremo a finire, ma la violenza non è sempre sbagliata? Ma le sedi concepite come postazioni di difesa e di conquista, entrambe armate, non erano cose mai viste prima? Certo, erano altri tempi. Ma anche questi, a loro modo, sono «altri tempi», dato che la pandemia segna una rottura abbastanza traumatica della storia mondiale ed esacerba molte tensioni latenti nella società. Perché dobbiamo contestualizzare la politica muscolare degli anni ’70 e non dobbiamo invece contestualizzare le tensioni di oggi nel quadro di un’emergenza mai vista prima (se non per gli effetti sanitari, certamente per quelli sociali) come quella in corso?

Ma c’è di più. Il fatto è che questo angelismo ipocrita ha delle conseguenze che spingono la sinistra in una serie di contraddizioni anche nell’oggi. Ne citiamo due, una politica e una culturale. La prima riguarda la banale constatazione del fatto che, persino in questi tempi anestetizzati, la dialettica politica corrente non è totalmente sovrapponibile alla mera legalità. Occupazioni abusive, manifestazioni non autorizzate, contrapposizione con le forze dell’ordine, violazioni di sedi, contestazioni irrituali, forzature più o meno violente, per tacere dell’enfasi verbale «rivoluzionaria», fanno tuttora parte del paesaggio politico, anche e soprattutto in settori vicini al centrosinistra. E, in generale, è un bene che sia così. In questo senso, il centrodestra ha buon gioco a mettere in difficoltà il Pd proponendo mozioni di censura che riguardino tutte le forme di violenza da parte di tutte le parti politiche (o, meglio: avrebbe buon gioco se lo facesse in maniera provocatoria e strumentale, cosa che sfortunatamente non sempre accade). È evidente che la rimozione totale e assoluta di qualsiasi forma di violenza, anche simbolica, sarebbe impossibile e impolitica.

Una aconflittualità ipocrita

La seconda contraddizione riguarda le conseguenze di questa aconflittualità ipocrita sull’interpretazione del passato e del presente. Quando, qualche anno fa, libri come quelli di Pansa e Telese, sulle violenze comuniste nella Resistenza e negli anni di piombo, cominciarono ad andare a ruba, svelando fatti che generarono indignazione e sgomento in larga parte dell’opinione pubblica, per lo più non neofascista, a sinistra rimasero spiazzati. I vari intellettuali organici dell’area antagonista, da Raimo a Wu Ming, spiegarono che il pubblico era diventato incapace di accettare la violenza partigiana perché semplicemente non sapeva più concepire la violenza. Ma la rimozione culturale della violenza è esattamente un portato dell’egemonia antifascista.

L’assalto alla Cgil e lo stato di indignazione perenne

Stessa cosa per gli eccessi di cancel culture, Black lives matter e propaggini varie dell’estremismo woke: su Internazionale e media analoghi è tutta una corsa a spiegarci che è in corso un «passaggio di microfono», un cambio di egemonie, e che la cosa può avere aspetti traumatici, perché la storia è conflitto e non si può pretendere che certe ferite si rimarginino sempre e solo al suono delle belle parole. Ma, di nuovo: lo sgomento per le statue decapitate è semplicemente un effetto collaterale di quella ipersensibilità culturale al conflitto e alla violenza che la cultura di sinistra, per prima, ha imposto. Cosa c’entra tutto questo con l’assalto alla Cgil? Poco forse. Ma questo stato di indignazione perenne, questo inorridire da vecchia dama ottocentesca per ogni atto inconsulto, questa tendenza al paragone iperbolico per cui un vetro rotto è praticamente il nuovo Olocausto, alla fine diventa un boomerang, sega il ramo su cui si è seduti e azzera qualsiasi capacità di comprensione del presente e del passato. Sul futuro, stendiamo un velo pietoso.

Adriano Scianca

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2 comments

Giorgio 13 Ottobre 2021 - 11:59

Complimenti vivissimi, un gran bell’articolo: lucido, critico, ragionevole e pieno di affermazioni condivisibili.

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Compagni, basta riempirvi la bocca di Costituzione Il Primato Nazionale 13 Ottobre 2021 - 5:18

[…] «Peggio degli anni ’70»: l’assalto alla Cgil e l’indignazione iperbolica della&#… […]

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