Roma, 1 mag – L’evento si ripete ogni anno a piazza San Giovanni. Ciclicamente, dal 1990. Centinaia di migliaia di persone in festa, a celebrare ciò che dovrebbe essere il fondamento della Repubblica. Dovrebbe, appunto.
Gli ultimi dati sono impietosi: a marzo, la disoccupazione si colloca a 12.7 punti percentuali, in calo sì di un misero 0.1% su base congiunturale ma in risalita dello 0.7% sui dodici mesi. Le cifre segnano un record tristemente negativo, da qualsiasi parte lo si guardi. Mai così alte osservando l’andamento delle serie storiche, sia quelle trimestrali disponibili dal 1977, sia quelle mensili redatte a partire dal 2004. Poco consola che nel mese di riferimento gli occupati mostrino un lievissimo avanzamento: dal crollo del mercato dei subprime, i segnali di ripartenza e di presunta uscita dalla crisi si sono sprecati lasciando sempre il tempo che trovavano. Una variazione pur in positivo può, ad oggi, significare tutto e il contrario di tutto. Specialmente guardando al tasso relativo ai giovani, fra i quali i disoccupati si collocano al 42.7%, senza poi considerare i cosiddetti “né-né” (in inglese “neet”) e vale a dire coloro che non lavorano e nemmeno sono impegnati in attività didattiche o formative. Una situazione che non può essere considerata in divenire, dato che anche di fronte ad una qualche ripresa si impiegheranno anni a riassorbire chi ha perso il lavoro e ancora di più a ritornare alla situazione antecedente il 2007.
Di fronte al quadro sconcertante, il susseguirsi di governi -da Monti a Renzi, passando per l’interregno Letta- non ha saputo in alcun modo districarsi fra le sfide poste. Interventi votati, piccole dosi per volta, alla sempre maggiore precarietà non hanno fatto che acuire difficoltà già palesate. L’attuale discussione sul cosiddetto “jobs act” non sembra in grado di progredire verso una riforma organica, limitandosi alla discussione sull’esigenza o meno di lasciare qualche rinnovo in più o in meno sui contratti a tempo determinato. Come se questa fosse la discriminante capace di dare una spinta alla tanto agognata risalita dell’occupazione. Senza un’organica riforma che parta dal prendere atto del fallimento delle misure addotate sino ad ora, qualsiasi scelta è destinata a non produrre effetti positivi, andando nel migliore dei casi solo a stratificare un corpus di leggi già ipertrofico. Servirebbe al contrario partire da specifici presupposti: contratto a tempo indeterminato forma-base pur con deroghe precise capaci di conciliare esigenze di lavoratori e datori di lavoro; estensione dello Statuto dei lavoratori o quanto meno sua riformulazione per superare l’attuale dualismo; riordinamento delle misure di sostegno al reddito ora suddivise fra cassa integrazione ordinaria e straordinaria, aspi, mini-aspi, sussidi di disoccupazione di vario e frammentato genere.
Obiettivo di qualsiasi riforma (comunque la si chiami) dovrebbe così essere il superamento della spaccatura sociale che vede da una parte sacche di rendita, dall’altra una totale assenza di strumenti idonei ad affrontare la realtà. Spaccatura che divide i lavoratori fra chi gode di un sostegno -sia esso diretto o indiretto- e chi rimane senza alcuna forma di tutela. Con il rischio di creare una guerra fratricida su quello che dovrebbe invece essere il fondamento costituzionale nonché pietra d’angolo della Repubblica. Cosa ci sia da festeggiare nel 2014, non è dato sapersi.
Filippo Burla
1 commento
[…] […]