“Combattevamo in Palestina ma i nostri pensieri e i nostri sogni volavano verso l’Egitto. Puntavamo le armi verso il nemico, acquattato là di fronte a noi nelle trincee, ma nei nostri cuori grande era la nostalgia per la patria lontana, lasciata in preda ai lupi voraci che tentavano di dilaniarla”. Sono parole di Gamal Abd Al-Nasser, leader della rivoluzione che il 26 luglio 1952, con l’occupazione dei centri nevralgici del Cairo e l’arresto dei membri dello Stato Maggiore, costringe all’esilio Re Faruq. È l’inizio della cacciata degli inglesi dall’Egitto e da Suez.
A ridosso della Nakba (tragedia), ovvero la sconfitta della resistenza palestinese e degli eserciti arabi contro il neonato stato d’Israele, la rivoluzione dei Liberi Ufficiali dona all’Egitto una serie di riforme economiche e sociali di prim’ordine: viene varato un piano quinquennale per le infrastrutture, le grandi proprietà terriere sono espropriate e bonificate, indennizzate con titoli di stato e redistribuite in piccoli lotti. Dal punto di vista strettamente politico, il movimento fondamentalista dei Fratelli Musulmani viene dichiarato fuori legge.
Nel 1954 Nasser è nominato primo ministro e due anni dopo, il 26 luglio, nazionalizza la Compagnia del Canale di Suez, i cui proventi avrebbero finanziato il grandioso progetto della diga di Assuan. Tuttavia la chiusura del canale colpisce in particolar modo Tel Aviv che a fine ottobre attacca l’Egitto, arrivando a bombardare Alessandria e occupando Sharm el Sheik. Il mondo è sul piede di guerra: i sovietici, superata l’iniziale diffidenza ideologica (anche grazie a una serie di intese economiche), sono diventati i primi interlocutori del nuovo corso egiziano e per bocca del primo ministro Bulganin si dicono “decisi a schiacciare gli aggressori e ristabilire la pace nel Medio Oriente con la forza”. Siria e Arabia tagliano il petrolio all’Europa e l’Onu invia i caschi blu a Suez, che infine rimane sotto il controllo egiziano.
L’epilogo della crisi di Suez e la conseguente affermazione diplomatica dell’Egitto su Francia e Inghilterra superano l’onta della sconfitta militare. Il 23 dicembre del 1956 Nasser celebra la Festa della vittoria e da qui prosegue la sua politica panaraba e anticapitalista: dalla Repubblica Araba Unita (l’unione con la Siria dal 1958 al 1961) all’impegno per lo schieramento dei Non allineati, i contatti con la Jeune Europe di Jean Thriart e i rapporti commerciali con l’Eni di Enrico Mattei. Sul fronte interno, il miglioramento delle condizioni sociali degli egiziani è netto: viene inaugurata la maestosa diga di Assuan, numerose malattie sono debellate, l’istruzione di tutti i livelli diviene gratuita e il governo vara un secondo piano industriale quinquennale.
Siamo al 1967, è la Guerra dei sei giorni: Israele attacca repentinamente Siria, Egitto e Giordania, fino a occupare il Sinai e le alture del Golan. L’esercito del Cairo si riscopre debole e impreparato, Nasser si assume la responsabilità della sconfitta e rassegna le dimissioni in diretta tv. Milioni di egiziani scenderanno in piazza, proprio nell’ora più buia della loro storia recente, e faranno tornare il Presidente sui suoi passi. Ancora un paio d’anni alla guida dell’Egitto e dello schieramento panarabo (Libia, Sudan, Somalia, Palestina), il leader dei Liberi Ufficiali, malato da anni di diabete, muore al Cairo il 28 settembre del 1970.
L’impegno di Nasser per la costruzione di uno stato sovrano, laico e socialista ha fornito, fino ai giorni nostri, l’esempio più autentico per molti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Una visione di governo che si ricollega a quella tipica delle nazioni dell’Asse, che si affianca al peronismo e che seppur con le dovute cautele, sotto diversi aspetti, ritroviamo nei paesi oggetto della recente riorganizzazione geopolitica a Sud del Mediterraneo. Non si tratta solo di architetture istituzionali, politiche economiche e sociali ma anche del rapporto fra il popolo e le gerarchie amministrative. Sistemi di potere da sempre nel mirino delle nazioni uscite vincitrici dalla Seconda guerra mondiale, in alcuni recenti casi spazzati via tramite la regia e il sovvenzionamento delle cosiddette primavere arabe, quando non anche il supporto concreto di uomini e mezzi.
Un fronte avverso con cui Nasser ha fatto i conti durante tutta la sua vita, in modo strutturato e sostanziale: la redistribuzione delle terre e l’istruzione pubblica contro l’accumulazione della ricchezza e la disuguaglianza, il contrasto dell’estremismo religioso contro la frammentazione sociale. Il tutto, grazie anche a una visione di politica estera pragmatica, in grado di superare alcune fra le più importanti rotture del secolo scorso. Una prospettiva federativa al riparo dal disordine, dall’instabilità e dalla divisione, quindi dai fattori storicamente necessari al sostentamento del capitalismo: l’ineguaglianza sociale (causa e conseguenza dell’accumulazione di capitale) e ogni tipo di traffico illecito (stupefacenti, esseri umani, armi) che non può prosperare se non in zone di conflitto o sotto il controllo della criminalità organizzata.
Il mondo di Nasser non era poi così diverso dal nostro.
Armando Haller
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