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In morte di Robin Williams: gli svantaggi di essere un eterno bambino

by La Redazione
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Robin-Williams-robin-williams-23183014-2000-1330Roma, 12 ago – Aveva interpretato tante di quelle volte il ruolo del giullare istrionico e travolgente che fa un po’ strano, oggi, leggere di una vita passata tra cocaina, alcolismo ed herpes genitale. Robin Williams, 63 anni, è stato trovato morto nella sua abitazione di Tiburon, in California. Secondo le prime ricostruzioni si tratterebbe di suicidio. Da tempo soffriva di una grave depressione, un po’ a confermare il luogo comune che vuole ogni clown impegnato a celare una grande malinconia dietro una maschera ridanciana.

Sullo schermo, tuttavia, Williams aveva interpretato quasi sempre un unico personaggio, con infinite variazioni sul tema: quello dell’adulto mai cresciuto. Non a caso ci si era subito rivolti a lui per riportare sullo schermo Peter Pan in Hook (1991).

Anche quando, da un certo punto della sua carriera in poi, lo si era voluto sperimentare in ruoli oscuri, da One Hour Photo (2002) a Insomnia (2002), non ci si era molto discostati dallo stesso tema: anche da cattivo, l’attore interpretava personaggi incompiuti, la cui malvagità era solo un modo distorto di affrontare le responsabilità dell’età adulta, senza avere nulla della crudeltà nietzscheana di un Hannibal Lecter.

Il ruolo dell’eterno bambino aveva fatto la sua fortuna, anche per il fatto di essere particolarmente in fase con la sensibilità contemporanea, che riserva un vero e proprio culto a una certa idea semplicistica di “creatività”, rifiutando al contempo tutta quella parte di disciplina, addestramento, lotta contro se stessi e contro il mondo che fa sì che essa giunga davvero a “creare” qualcosa anziché ridursi a posa fintamente anticonformistica.

Essere un eterno bambino, a ben vedere, è l’esatto opposto dell’avere “diciassette anni per tutta la vita”. A diciassette anni si è – o si dovrebbe essere – pronti a donare se stessi per le belle idee per cui si muore. Il bambino non ha idee e non si dona, tende anzi a uno spontaneo narcisismo che trova il suo limite proprio nella crescita e nella scoperta del mondo. Il bambino è buffo, è tenero, è ingenuo, tutte caratteristiche che lo rendono amabile ma che viceversa sono sintomo di alienazione in chiunque abbia superato la pubertà.

La difficoltà di darsi una forma e uscire dalla dimensione infantile tipica dei personaggi di Robin Williams è tipicamente rappresentata dal personaggio letteralmente “fuori fuoco” di Harry a pezzi (2007), il più “filosofico” dei film di Woody Allen. Ma è sicuramente in L’attimo fuggente (1989) che lo Williams-pensiero si fa manifesto esistenziale e pedagogico.

Il film è bellissimo sotto ogni riguardo: regia, recitazione, fotografia, dialoghi. La morale della pellicola, tuttavia, è un inno alla mediocrità. Il senso dell’istruzione, ma forse della stessa vita, diventa ora la coltivazione di una sorta di poesia spontanea alla quale, beninteso, tutti siamo egualmente portati, in modo democratico ed equanime. Fare poesia non significa più, come ci ha insegnato Ezra Pound, il lavoro di tutta una vita sulla parola, alla ricerca talora straziante della forma, in confronto costante con i Maestri. È, secondo gli esercizi proposti in classe dal protagonista, chiudere gli occhi e sparare frasi a casaccio per mettere a nudo la propria “interiorità” (Stefan George si rivolta nella tomba…).

Il buon educatore è quindi colui che non insegna nulla –per tutta la pellicola non vediamo mai il professor Keating insegnare la benché minima nozione di letteratura – ma dà lezioni di anticonformismo spicciolo. È come se un professore di fisica decidesse di fregarsene di Newton e Heisenberg per spingere i suoi studenti a diventare inventori. “Quando i suoi allievi scopriranno di non essere artisti la odieranno”, spiega un altro professore al docente ribelle, e ha ragione. Tanto più che la ribellione alle istituzioni bigotte non avviene in nome di una guerra, una rivoluzione, un ideale, ma all’insegna di un semplicistico e in fondo borghese “essere se stessi”. È andata a finire che migliaia di uomini qualunque si sono tatuati “carpe diem” sull’avambraccio per giustificare filosoficamente l’ennesimo strappo alla dieta o la scappatella con la collega.

Coerentemente con questa impostazione, Robin Williams ha interpretato sistematicamente ruoli anti-eroici. Basti vedere il disturbante Toys (1992) o soprattutto il noto Good Morning, Vietnam (1987).  Peccato che questo pacifismo non gli abbia impedito di interagire spesso e volentieri col Pentagono: le sue visite alle truppe Usa in Iraq e Afghanistan sono state molte, anche a distanza di tempo nel corso degli anni. Robin Williams arrivava per improvvisare i suoi show e ringraziare i soldati, anche se non amava farsi ritrarre accanto alle armi. Perché i soldati, in guerra, fanno proprio questo: sparano. Uccidono. Amare gli uni senza accettare questa dimensione significa vivere fuori dalla realtà. Come un bambino.

Adriano Scianca

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