E’ morto oggi pomeriggio, lanciandosi dal balcone del suo appartamento al terzo piano di via dei Gracchi, a Roma, il regista 91enne Carlo Lizzani. Non si conoscono al momento altri dettagli sulle motivazioni e le modalità del gesto.
Nato a Roma il 3 aprile 1922, Lizzani è stato uno dei più noti registi italiani, ma anche uno dei più politicizzati. Subito dopo la guerra era stato al fianco di Enrico Berlinguer nella Federazione Giovanile Comunista e molti dei suoi film riflettevano questo orientamento: pensiamo a film come “Actung banditi”, “L’oro di Roma”, “Il gobbo”, “Kleinhof Hotel”, “Banditi a Milano”, “Svegliati e Uccidi”, “Storie di vita e malavita”, “Il processo di Verona”, “San Babila ore 20”.
Contrastano decisamente con la nettezza di questo impegno politico le frasi che, ormai sul finire della propria vita, aveva dedicato alla sua personale esperienza da giovane fascista. In un’intervista a “Io Donna”, il regista che tra le altre cose aveva curato il documentario sui funerali di Enrico Berlinguer, aveva definito «il più bel giorno della vita» quello del 1940 in cui si vide pubblicato il primo articolo su «Roma fascista». All’epoca, Lizzani aveva solo diciannove anni.
«Ero un ragazzo – aggiunse – e quello era il passaggio dal sogno di diventare scrittore al vedere, in quel nome stampato per la prima volta su una rivista così importante, la realizzazione dei propri sogni. Inoltre, anche se meno, contava il sentirsi parte di un processo più ampio, cioè la modernizzazione dell’Italia operata dal fascismo. Per noi ragazzi si aprirono le porte di pubblicazioni come “Primato”, con Bottai e altri gerarchi che offrivano la possibilità ai giovani di scrivere per le principali riviste. Il Centro sperimentale di cinematografia, un’invenzione fascista, proiettava i film sovietici. Ci sentivamo promossi come nessun’altra generazione prima di noi. Le parole d’ordine erano “largo ai giovani” e “la borghesia la seppelliremo”, mentre i nostri padri venivano da società gerontocratiche, bloccate. I Littoriali erano grandi gare giovanili che davano ai dicottenni l’opportunità di viaggiare, uscire di casa, sentirsi autonomi rispetto alla famiglia e ai canoni borghesi […]. Noi universitari eravamo nei Guf, i Gruppi universitari fascisti. Io addirittura al liceo, quando seppi che ai Guf si proiettavano opere che in giro non si vedevano, mi infilai e iniziai a frequentarli per vedere i film di René Clair e quelli del Centro sperimentale. Nel Radioguf i giovani si esercitavano a fare la radio. Ai Teatriguf fecero i primi provini Anna Proclemer e Giulietta Masina. Si veniva catapultati, con la possibilità di cimentarsi e mettersi alla prova. Oggi i Dams non hanno gli stessi mezzi. Di Teatroguf invece ce n’erano diciotto, e non solo a Roma e a Milano. Il fascismo è un fenomeno articolato, complesso, non è come i colonnelli greci o Pinochet. La predicazione antiborghese del fascismo ci ha preparato a passare armi e bagagli sul fronte marxista. All’Istituto di cultura fascista andavamo a leggere il Manifesto di Marx in appendice a un volume di Labriola».
Della fine di Mussolini, invece, diceva: «Lo stesso Pajetta me ne parlò come di un atto terribile che non si riuscì a impedire. Non fu giusto, ma forse inevitabile nell’abisso in cui eravamo finiti per vanità, ideologia e incapacità militare. Ha ragione Günter Grass quando descrive la sua giovanile militanza nazista: sono momenti di accelerazione della storia. In quattro anni maturammo quanto in 30 anni di pace. La storia, però, non è lineare. Non ci sono il bene e il male, la reazione da una parte e il progresso dall’altra. Il fascismo è stato un movimento di massa reazionario ma modernizzatore, non era la repressione militare di fine Ottocento. Ha aggiornato il modo di vita degli italiani con i piani delle città, il cinema, la radio, l’urbanistica, l’Accademia d’Italia. Ha fatto bene, poi è sprofondato nei disegni di superiorità razziale mentre gli imperi coloniali cominciavano ad essere liquidati».
Una volta aveva confessato un sogno in cui compariva addirittura Adolf Hitler in persona: «Sto girando un film. Durante la pausa mi accorgo che una delle comparse è proprio lui, Adolf Hitler. Chiedo al maestro d’armi di procurarmi subito una pistola che mi viene fornita. Sono così deciso ad affrontarlo ma mi accorgo di procedere molto lentamente perché in realtà sono diviso interiormente tra due grandi possibilità: diventare un eroe, il giustiziere del secolo che passerà alla storia per aver cancellato dalla faccia della terra l’artefice dell’Olocausto oppure l’artista, l’autore che riesce a farsi raccontare i segreti del Bunker, colui insomma che mette a punto uno scoop mondiale, che gli consente di entrare nel labirinto del cervello del più malefico criminale della storia, intervistandolo in un posto tranquillo. Sono deciso però a spaventarlo, a metterlo in ginocchio e la pistola serve proprio a questo… ma nell’attimo in cui sto per premere il grilletto mi sveglio e resto con una sensazione di amaro e il desiderio di saperne di più. Come ho scritto nella mia biografia, continuo ancora oggi ad interrogarmi sui molteplici significati di quel sogno».
Giuliano Lebelli