Roma, 4 set – Davvero emblematico, il branco accusato di aver commesso gli atroci stupri di Rimini. Sociologicamente, il gruppetto è interessante anche a prescindere dalle eventuali responsabilità (Butungu, quello indicato come il capo della combriccola, al momento nega ogni addebito circa la violenza, ma ha ammesso di essere amico degli altri tre, che invece sono rei confessi). Nel quadretto decadente vediamo plasticamente rappresentato il fallimento dell’integrazione e di qualsiasi discorso buonista sull’immigrazione. Nel gruppo, infatti, c’erano degli aspiranti “nuovi italiani”, marocchini e nigeriani nati e cresciuti qui, quindi potenziali destinatari della legge sullo ius soli in discussione alle Camere, ma anche un “rifugiato” congolese fresco di sbarco. Butungu è infatti arrivato a Lampedusa nel 2015 ed era in permesso di soggiorno fino al 2018 per motivi umanitari.
Curioso questo incontro tra persone che, secondo la retorica progressista, dovrebbero già essere italiane “di fatto” per essere cresciute qui e l’immigrato arrivato da poco. Perché gli immigrati di prima e di seconda generazione tendono a ritrovarsi e ad aggregarsi? In questo caso, poi, non c’è nemmeno la scusa della solidarietà etnica o religiosa, dato che parliamo di persone che vengono da tre zone e da tre culture dell’Africa molto differenti fra loro. Il collante non è la razza, non è la lingua, non è la religione, non è neanche l’esperienza di vita o l’età (il più piccolo ha 15 anni, il congolese 20, almeno dichiarati, ma dalla faccia si direbbe anche di più). Sembra quasi che l’immigrazione stia creando una nuova massa di tutti i colori, tranne il bianco, destinata a saldarsi tramite il collante di una sottocultura post-civilizzata. Il retaggio ancestrale africano porta la mentalità da clan, il virilismo d’accatto, il disprezzo per la donna. L’Occidente ci mette la cultura gangsta, il mito del successo e dei soldi facili, la cultura dell’apparenza, lo stordimento di droghe e alcol. Lo sradicamento dalla propria terra comporta quella sensazione di poter far tutto, la licenza che può permettersi solo chi è in terra straniera.
La miscela finale è questo mostro etico che chiamiamo “integrazione” e che invece è solo una tribù figlia di mille disintegrazioni. Certo, la ragazzina della ghenga intervistata da Repubblica dice che la loro compagnia “è fatta di una trentina di ragazzi, abbiamo il nostro gruppo WhatsApp. Ci sono marocchini, albanesi, e cinque italiani”. C’è anche qualche italiano, quindi. L’unica vera integrazione che si registra è questa: siamo noi a diventare come loro, non viceversa. Davvero un bel risultato.
Adriano Scianca
1 commento
Ma quale integrazione … questa è manodopera buona solo per la piantagione !