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Covid, tutto sul niclosamide, il farmaco che “blocca” i danni ai polmoni

by Ilaria Paoletti
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Niclosamide, immagini di provette

Roma, 8 apr – Un “insospettabile, il niclosamide: usato da 50 anni per le infezioni intestinali, si scopre oggi che sarebbe in grado anche di “bloccare” i danni creati dalla proteina Spike del Covid che attacca in particolar modo cervello e polmoni.

Niclosamide, studio anglo-italiano

Lo studio sul niclosamide è stato condotto da un gruppo di ricercatori del King’s College London ma c’è anche tanta Italia grazie  alla presenza dell’università degli studi di Trieste e del Centro di ingegneria genetica e biotecnologie (Icgeb) di Trieste. Lo studio sul farmaco è stato pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista ‘Nature’. Il lavoro focalizzato sul niclosamide ha identificato il meccanismo che porta alla fusione delle cellule infettate con Sars-Cov-2 del farmaco che potrebbe bloccare questo processo. Al momento, una sperimentazione è in atto in India.

La ricerca e le scoperte sulla proteina Spike

E’ stato compiuto uno screening di laboratorio su oltre 3mila farmaci già approvati per la terapia di numerose malattie. Tra i farmaci presi in esame,  il gruppo di ricercatori italiani e inglesi guidati da Mauro Giacca, professore dell’università di Trieste, docente di Cardiovascular Sciences al King’s College di Londra e responsabile del Laboratorio di medicina molecolare dell’Icgeb, hanno evidenziato ‘antiparassitario niclosamide, che sembrerebbe in grado di bloccare gli effetti nefasti della proteina Spike di Sars-CoV-2 e nel modo in cui attechisce le cellule.

Nel novembre dello scorso anno, il  medesimo gruppo di ricercatori, aveva dimostrato (in un articolo pubblicato su ‘Lancet eBioMedicine’) che i polmoni dei pazienti morti per Covid-19 contenevano un vasto numero di cellule anormali, grandi e con molti nuclei, infettate dal virus anche dopo 30-40 giorni dal ricovero in ospedale. Le cellule anomale sarebbero generate dalla proteina Spike del coronavirus, che è in grado di stimolare la fusione tra le cellule infettate e le cellule vicine.

Giacca (Università Trieste): “Ora sappiamo gli effetti del niclosamide”

“Siamo molto soddisfatti dei nostri risultati – dichiara Giacca – per almeno due motivi. Primo, perché abbiamo scoperto un meccanismo completamente nuovo, attivato dalla proteina Spike e importante per il virus. Le nostre ricerche mostrano come Spike attivi una famiglia di proteine della cellula, chiamate TMEM16, che sono indispensabili per la fusione cellulare. Secondo, perché questo meccanismo è anche alla base dell’attivazione delle piastrine, e potrebbe quindi anche spiegare perché il 70% dei pazienti con Covid-19 grave sviluppa una trombosi. E ora sappiamo che c’è almeno un farmaco, la niclosamide, in grado di bloccare questo meccanismo”.

La storia del farmaco, dalle infezioni intestinali al Covid

Il niclosamide è stato sintetizzato negli anni ’70. Dal 1982 viene usato per la terapia delle infezioni intestinali dovute alla tenia. Lo studio di quest’anno dimostra come, inibendo TMEM16 e la fusione delle cellule, può bloccare anche la replicazione del virus. Sulla base di questi risultati, una sperimentazione clinica su 120 pazienti è già partita in India, dove l’infezione è ancora molto diffusa e si sta somministrando la niclosamide a un gruppo di pazienti ricoverati in ospedale con Covid-19, spiegano gli esperti. Si tratta di una sperimentazione appena avviata, puntualizzano, e pertanto sarà di fondamentale importanza attendere i risultati nel corso dei prossimi mesi per confermare l’efficacia del farmaco.

“Penso che questa ricerca sia importante – continua Giacca – anche perché sposta l’attenzione dal tentativo di bloccare la moltiplicazione del virus, come finora si è cercato di fare con alcuni farmaci, con scarso successo, a quello di inibire il danno causato all’organismo dalle cellule infettate. Sono sempre più convinto che Covid-19 sia una malattia causata non dalla semplice distruzione delle cellule infettate dal virus, ma dalla persistenza di queste cellule nell’organismo per periodi lunghi di tempo. Il meccanismo che abbiamo scoperto potrebbe quindi anche essere coinvolto nello sviluppo del cosiddetto Covid lungo, ovvero spiegare la difficoltà che molti pazienti hanno a recuperare dopo la malattia”.

Ilaria Paoletti

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