Roma, 3 feb — Donne morte cerebralmente utilizzate come uteri in affitto per lo sviluppo di feti, che verranno successivamente venduti alla facoltosa coppia etero o gay-trans-non-binaria di turno.

Donne in coma irreversibile usate come uteri in affitto

La proposta, apparsa lo scorso novembre sulla rivista Theoretical Medicine and Bioethics arriva dall’Università di Oslo, Norvegia, ed è firmata dalla ricercatrice Anna Smajdor. L’articolo, (qui il link) è intitolato Whole Body Gestational Donation (Donazione gestazionale di tutto il corpo) e propone di utilizzare l’intero corpo di donne in stato vegetativo come madri surrogate per «futuri genitori che desiderano avere figli»: per i prossimi Tiziano Ferro o Paris Hilton, per darvi un’idea.

Queste donne, sostiene la Smajdor, potrebbero diventare incubatrici cerebralmente morte di bimbi di persone ricche previo consenso anticipato, simile a quello che si dà per l’espianto degli organi. Chiama la procedura «donazione gestazionale di tutto il corpo» (Wbgd). «Sappiamo che le donne “cerebralmente morte” possono portare a termine la gravidanza; perché non dovremmo iniziare gravidanze per aiutare le coppie senza figli?», si domanda candidamente la ricercatrice.

Un’ipotesi già avanzata

In passato qualcuno aveva già avanzato la stessa ipotesi: l’idea è precedentemente emersa nel 2000, in un articolo pubblicato sulla stessa rivista da una dottoressa israeliana, Rosalie Ber. La studiosa aveva addirittura ipotizzato che i corpi delle donne in uno stato vegetativo persistente (Pvs) potessero essere usati per incubare i bambini fino a quando l’ectogenesila crescita dei bambini in uteri artificiali — non diventerà una realtà.

Per chi fosse a digiuno di termini medici, la Pvs è uno stato in cui i pazienti non mostrano segni di percezione e comunicazione o consapevolezza di sé. Poiché il tronco encefalico non è colpito, i pazienti in Pvs possono ancora essere in grado di respirare da soli e mostrare di possdere alcune forme di coscienza, tra cui aprire gli occhi, sperimentare cicli sonno-veglia o modificare le proprie espressioni facciali. Statisticamente vi sono possibilità di riprendersi da uno stato vegetativo. Per questo motivo la Smajdor ritiene che sia più «problematico» incubare i bambini in donne affette da Pvs: è remotamente possibile che questi possano riprendersi.  

Perché non utilizzare anche gli uomini?

«Gli Stati e i servizi sanitari dovrebbero modificare le loro politiche e procedure per includere la Wbgd tra le altre opzioni di donazione organi», afferma Smajdor che definisce la WBGD «come un mezzo diretto per facilitare una riproduzione più sicura ed evitare i problemi morali della maternità surrogata». Stupefacente la sicumera con cui il capitolo «problemi morali» viene scavalcato. Non è che forse se ne potrebbero aggiungere altri? La Smajdor sembra proprio non considerare la questione. Anzi, alle vetero-femministe che stigmatizzano la WBGD perché riduce il corpo femminile a una sorta di «contenitore fetale», la scienziata mette sul piatto un’ulteriore opzione: e se anche i corpi degli uomini potessero essere adattati per fungere da incubatrici per la gestazione di embrioni surrogati? «Anche gli uomini con morte cerebrale avrebbero il potenziale per incubare», assicura Smajdor, aggiungendo che «il fegato è un sito di impianto promettente, a causa del suo eccellente apporto di sangue».

Inoltre, conclude, la gravidanza è un’esperienza pericolosa che andrebbe «eradicata». «Non possiamo ancora rinunciare del tutto all’utero per la riproduzione della nostra specie», sostiene Smajdor. «Ma possiamo trasferire i rischi della gestazione a coloro che non possono più esserne danneggiati». Cadaveri usati per incubare bambini; cosa potrà mai andare storto? Ma soprattutto quale potrebbe essere il passo successivo? Il Soilent Green?De resto era inevitabile che prima o poi qualcuno arrivasse a chiedersi «come possiamo trarre profitto da quei corpi di donne, pardon persone con utero, che giacciono nei letti d’ospedale con il tronco encefalico morto?».

Cristina Gauri

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Classe 1977, nata nella città dei Mille e cresciuta ai piedi della Val Brembana, dell’identità orobica ha preso il meglio e il peggio. Ex musicista elettronica, ha passato metà della sua vita a fare cazzate negli ambienti malsani delle sottoculture, vera scuola di vita da cui è uscita con la consapevolezza che guarire dall’egemonia culturale della sinistra, soprattutto in ambito giovanile, è un dovere morale, e non cessa mai di ricordarlo quando scrive. Ha fatto uscire due dischi cacofonici e prima di diventare giornalista pubblicista è stata social media manager in tempi assai «pionieri» per un noto quotidiano sabaudo. Scrive di tutto quello che la fa arrabbiare, compresi i tic e le idiozie della sua stessa area politica.

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