Partito dal porto di Civitavecchia il 13 novembre scorso, il 30° gruppo navale della Marina è formato dalla portaerei Cavour, la fiammante fregata Bellarmini (classe Fremm) ed il pattugliatore Borsini, le tre navi più moderne ed avanzate della nostra flotta, affiancate logisticamente dalla nave Etna. La missione al momento ha toccato i porti di Jedda (Arabia Saudita), Gibuti (Gibuti), Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti), Mina Sulman (Barhein), Kuwait City (Kuwait), Doha (Qatar), Mascate (Oman), Dubai (Emirati Arabi Uniti), Mombasa (Kenya), Antseranana (Madagascar), Maputo (Mozambico), Città del Capo (Sudafrica) per arrivare in questi giorni a Luanda, in Angola, ed in attesa di toccare altre sette nazioni africane prima di terminare l’impegno il 7 aprile. A bordo, oltre a cinque cacciabombardieri Harrier e cinque elicotteri AgustaWestland, trovano posto le delegazioni di tutta l’industria nazionale pubblica del settore difesa – Finmeccanica, Fincantieri, AgustaWestland, Selex ES, OTO Melara, WASS, MBDA, Telespazio, Beretta e via discorrendo – l’Istituto per il Commercio Estero, l’Expo 2015 ed alcune società dell’industria civile del miglior made in Italy.
La campagna navale ‘Sistema Paese in movimento’ è stata criticata fin dall’inizio dai megafoni della sinistra antagonista, così come dal M5S, con l’antiquata retorica pacifista gracchiante riguardo “mercati di armi” e “fiere della morte”.
In realtà la scelta si è rivelata azzeccata: la Marina ed il Ministero della Difesa hanno pubblicizzato la missione paragonandola alla mostra militare biennale parigina ‘Le Bourget’, ma allo stesso tempo sono stati sottolineati anche gli altri aspetti della campagna: d’impatto diplomatico, umanitario, militare, commerciale e relativo alla sicurezza. Se l’aspetto diplomatico e commerciale si spiegano da soli, con la visita di un gruppo navale del massimo livello e con tali delegazioni a bordo, riguardo al carattere umanitario della missione si conta la presenza della Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus e la Croce Rossa Italiana, che operano continuativamente in ogni tappa africana attraverso screening di massa, operazioni chirurgiche, distribuzione di medicinali e trattamenti di vario genere, cui si aggiunge sempre sulla terraferma l’invio di soldati, che volontariamente si recano in loco per realizzare riparazioni e migliorie di carattere idraulico, elettrico, murario e non solo presso scuole e strutture delle comunità attraversate dal contingente.
L’aspetto militare e di sicurezza è evidenziato invece dalle manovre congiunte del gruppo navale italiano sia con le flotte alleate incontrate durante il tragitto, come il gruppo della francese De Gaulle, che con quelle delle nazioni visitate. In particolare, nel caso del Mozambico si è staccato il pattugliatore d’altura Borsini, che rimarrà sul posto per due mesi, cooperando con le forze navali mozambicane, che dispongono piccole imbarcazioni donate da Spagna e Sudafrica oltreché nuovi mezzi acquistati dalla Francia, addestrandone i reparti addetti promuovendo la formazione. Un’iniziativa importante per la sicurezza globale, considerato che già l’Italia opera in tal senso con le vicine Tanzania e Gibuti, permettendo lo svolgimento in autonomia per queste nazioni dei compiti di sorveglianza in zone tutt’altro che sicure. Iniziativa che, unita alle sopracitate attività umanitarie, risulta molto importante dati inoltre i rapporti amichevoli sviluppatisi tra Italia e Mozambico in seguito alla missione da noi stessi operata sotto le insegne dell’Onu nel 1993-94. Rapporti che hanno reso possibile l’istaurazione anche di legami strategici importanti, come la concessione all’Eni del 70% di ‘Atea 4’, un’area marina contenente circa duemila miliardi di metri cubi di riserve di gas ai confini con la Tanzania.
Discorso diverso per l’Angola che, con la fine di una guerra civile quarantennale nel 2002, sta attraversando una crescita poderosa alimentata anche dalla scoperta di una grande quantità di petrolio, tanto da divenire il secondo produttore africano in concorrenza per la prima posizione con la Nigeria. Una crescita che permette l’assegnazione di maggiori risorse alla difesa angolana, provvista di vecchi mezzi non validi a combattere efficacemente la piaga dei trafficanti di uomini e droga, la minaccia degli attacchi pirati alle piattaforme off-shore ed il controllo degli enormi confini interni con il Congo, attraversati da una giungla inaccessibile.
Per concludere, alle critiche rivolte nei confronti degli alti costi della missione, chiudono la questione le parole dell’ammiraglio Treu stesso: “E’ una stupidaggine dire che questa campagna costa soldi al contribuente. Non é vero perché la Marina per sostenere questa campagna impiega le risorse che avrebbe comunque impiegato per fare addestramenti. Si tratta di risorse che per esempio sarebbero state utilizzati per fare attività nel Mediterraneo, l’addestramento è necessario, perché quando c’é un’esigenza reale non si può affrontare senza addestramento. Questi soldi il contribuente li avrebbe comunque spesi, solo che sarebbero bastati solo per un’attività di due mesi. Il resto dei fondi per questa campagna di cinque mesi li hanno messi gli sponsor”. Le cifre infatti parlano di 20 milioni di euro a carico del Ministero della Difesa, dei quali 13 per la gestione ordinaria e 7 per le indennità al personale, cui aggiungere altri 13 milioni di costi vivi, a carico invece degli sponsor del progetto. Cifre alte? In realtà piuttosto basse se si parla in termini di budget nazionali e non con il portafoglio del comune cittadino. Altre potenze investono cifre ben maggiori rispetto a queste e ne vedono i frutti, si parla infatti di investimenti e non di spese a vuoto in quanto, parlandoci francamente, se non stringiamo rapporti diplomatici, umanitari, commerciali e militari noi – intesi come Italia naturalmente – sarà qualcun altro a farlo ed a prenderne tutti i benefici conseguenti. Perché, ed è una lezione per tutti, come termina Treu: “Io vado in giro, ho gli stand, gli elicotteri gli aeroplani che possono essere visitati. Certamente sostengo l’industria nazionale, militare e non. Poi c’é anche chi è contrario all’industria militare, ma se noi accettiamo di avere un’industria militare che fa mangiare 50mila operai che lavorano grazie a questa industria, dobbiamo accettare di promuoverla se no tanto vale chiuderla. Poi dovremo anche decidere se vogliamo le forze armate, se non le vogliamo chiudiamo anche quelle, e in caso di necessità ci difenderemo con i coltelli da cucina”.
Gabriele Taddei
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