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Fenomenologia Zeman: il risultato frutto della prestazione

by Filippo Burla
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ZemanCagliari, 9 dic – Quattro. Tre. Tre. Sigarette. Roma. Foggia. Ironia. Muto. Giovani. Attacco. Dieci parole per ritrarre Zdenek Zeman, l’affresco del Boemo che ha spaccato l’Italia in due, come solo i grandi sanno fare.

Zemanlandia inizia in un freddo inverno del 1989. Siamo in Brianza, 30 dicembre, lo scenario è lo stadio “Brianteo” di Monza. Si gioca la 18esima giornata di serie B. Il Foggia di Zeman è al centro della contestazioni dei tifosi pugliesi. Pasquale Casillo, il “re del grano”, patron della squadra torna dalla Russia e si accomoda in tribuna, nel secondo tempo. I rossoneri stanno perdendo 1-0, goal di Consonni, la gente vuole la testa del ceco. Ma, uno dei tanti colpi di scena della carriera dell’uomo venuto dall’est si palesa, l’azione d’attacco è terminata, Giuseppe Signori e compagni rientrano stremati. Saini, sbaglia l’appoggio al portiere monzese, Signori si avventa sul pallone è il ’67, il Foggia pareggia. Zeman salva la panchina e inizia la leggenda del “muto”.

“sFoggia spettacolo” – Dopo anni di gavetta in Sicilia, sbarcato nell’isola meridionale, nel 1968 per raggiungere lo zio materno Cestmir Vycpalek, ex giocatore ed allenatore della Juventus – bianconeri che saranno punto focale delle avventure zemaniane – nel 1979 prende il patentino di allenatore a Coverciano e va sulla panchina del Palermo, nelle giovanili. Nel 1983 è a Licata, sbarca in C1 e il Foggia lo chiama, ma l’amore a prima vista si spegne dopo una sola stagione. Parma e Messina nei due anni successivi. Poi il 1989, Pasquale Casillo sente troppo forte il richiamo verso Zeman e lo rivuole alla sua corte. Il tridente Casillo-Zeman-Pavone (Giuseppe, detto Peppino), tridente chiodo fisso del Boemo, dopo alcuni mesi di assestamento squarcia l’Italia intera. Il primo anno di B pone le basi per la promozione nell’annata successiva. Sono record su record. Il tridente, quello del campo, Baiano-Signori-Rambaudi spacca le porte avversarie, 67 reti in 38 partite, il primo capocannoniere con 22 centri, 11 per il secondo e 15 per “Rambo”. Il Foggia dopo 13 anni torna in serie A. La formazione resta immutata, ma arrivano, il vento dell’est, tre nazionali: Dan Petrescu, romeno, i russi Igor Salimov e Igor Kolyvanov. Zemanlandia sbarca in A. Nono posto, dodicesimo nel 1992-93, con la squadra smembrata e assemblata con perfetti sconosciuti delle serie minori, l’ultimo anno di nuovo noni e solo la sconfitta con il Napoli nell’ultima di campionato toglie al Foggia l’accesso alla Coppa Uefa. Cala il sipario, ciao Puglia.

4-3-3 – Roma, cerca il suo nuovo imperatore, prima Cragnotti e poi Sensi si rivolgono a lui. In quattro stagioni completate, nel 1996-1997 viene esonerato dalla Lazio, per quattro volte entra nelle prime cinque. Biancocelesti e giallorossi sono ai suoi piedi, valica l’odio ancestrale e dei quartieri, unisce la dove lo spirito divide. Nel 1997-98 perde quattro derby, ma la Roma e i suoi tifosi non fanno la piega, Zeman non si discute si ama. Qui il livello si alza e il suo 4-3-3 fatto con il triangolo – gioca sempre a tre, creando e cercando continuamente triangoli tra i suoi giocatori sia in fase offensiva che in fase difensiva, tutta la squadra è collegata da tre lati – e la difesa, alta, altissima s’impone ai vertici. Il compito dei suoi uomini è quello di spostare l’azione difensiva 80 metri avanti rispetto ai suoi colleghi. Finita l’azione d’attacco, gli attaccanti si trasformano in difensori. Il “muto” imposta tutto sul recupero del pallone nella meta-campo degli avversari, ecco dove nasce il suo pressing asfissiante. Poi ci sono i carichi di allenamento. I famigerati gradoni. Allo stadio, su e giù. Sacchi con la sabbia dentro, sulle spalle, e correre, gli 11 in campo volano gli avversari con il serbatoio pieno a metà. A Foggia allenava la squadra, a San Ciro in un oratorio, di 70×40 metri, in terra battuta, mentre già a nord si parlava di sintetico.

Il bianco ed il nero – Il 1999 segna la fine della sua avventura nella capitale. Pesano come macigni le sue risposte alle domande de “L’Espresso”, uscito in edicola il 7 agosto del 1998. Sono i giorni dello scandalo “Festina” al Tour. “Sarò anche un romantico, legato a una concezione del calcio in cui i giri di campo contano più della chimica, ma non sono ingenuo. Sono certo che molti giocatori della seria A, forse anche della Roma, non sappiano rinunciare a certe sostanze” e per concludere “il mondo del calcio è dominato dalla finanza, oltre che dalle farmacie”. Apriti cielo. Il segreto di Pulcinella trasmesso a 50 milioni di commissari tecnici, l’italiano medio della passione pallonara. L’attacco è rivolto alla Juventus, anzi più esattamente allo staff tecnico a Gianluca Vialli, Alessandro Del Piero e Luciano Moggi. Lui ha sempre sostenuto di essere tifoso della Juventus, merito di suo zio, e di non avere niente contro la triplastellata, ma di essersi messi contro gli uomini che hanno infangato il nome della vecchia Signora e del gioco più bello del mondo. Finiscono tutti in tribunale. Riccardo Agricola, medico sociale dei bianconeri, e Antonio Giraudo escono indenni dal processo per somministrazione di farmaci ai giocatori, Epo (Eritropoietina) e compagnia bella, la prescrizione per il primo, l’assoluzione in formula piena per il secondo. Poi vengono gli anni di Calciopoli, Luciano Moggi – “il 3 agosto 2012 la III sezione del Tar del Lazio conferma in via definitiva il provvedimento di radiazione da qualsiasi incarico nell’ambito dello sport italiano” (fonte: wikipedia) – il contro accusatore di Zdenek Zeman, assolto dall’accusa di diffamazione per aver affermato che il Boemo “non sa allenare”, si “scopre” il burattinaio del calcio italico. Sensi deve “cacciare” il ceco, perché con lui in panchina non si poteva vincere, arriva Capello “un allenatore ben voluto dal palazzo”. Inizia il calvario, prima il Fenerbahce, poi il ritorno, in Italia, a Napoli. Qui Zeman si sente vittima di un tiro mancino, capisce e ha il sentore di essere caduto in trappola. Lancia una nuova accusa è Moggi che ha convinto il presidente partenopeo Corrado Ferlaino e il suo collaboratore Giorgio Corbelli ad assumerlo per poi cacciarlo, in diretta televisiva dopo un pareggio, 1-1, a Perugia contro una squadra, quella di Cosmi, che veniva da due vittorie consecutive con un rigore dubbio, trasformato da Marco Materazzi. Salernitana, Avellino, dove anni dopo nel documentario “Zemanlandia” di Giuseppe Sansonna, Pasquale Casillo, che in Irpinia aveva riformato il “magico” tridente, dirigenziale, dell’era foggiana, dice che in una telefonata gli fu detto che se avesse esonerato Zeman, l’Avellino si sarebbe salvato. Poi il ritorno in A, a Lecce, nel Salento, dove la squadra chiude con il secondo miglior attacco e la peggior difesa, prima squadra a salvarsi essendo la più trafitta. Ma, un altro ma, la sua carriera non ridecolla. Brescia, ancora Lecce e Stella Rossa, anni opachi.

“Mo ce lo faccio vedere io” – 2010-11, Casillo chiama e il Boemo risponde di nuovo presente, ancor a Foggia, un anno, sesto e lascia la Puglia, per via dei troppi errori arbitrali. Fa qualche chilometro a nord e sbarca a Pescara. La squadra è mediocre, tanti giovani, tre, la Trinità che torna sempre, Lorenzo Insigne, Ciro Immobile e Marco Verratti sul piede di guerra e con la fame che piace a lui. Qualcuno storce il naso “Zemanlandia” è al capolinea e Zeman di nuovo all’attacco: “Mo ce lo faccio vedere io”. Vittoria del campionato, 83 punti, 90 segnature (28 di Immobile), le lacrime in Padova-Pescara 0-6, dedicate “al mio prototipo di portiere, Francesco Mancini”, suo collaboratore scomparso il 30 marzo 2012; lui che non fa trasparire mai emozioni, lui uomo silenzio, seduto, sulla panchina, con un velo sugli occhi, una patina. La dove l’emozione tocca il cuore più di mille ingiustizie, più di mille parole. Poi la Roma lo fa tentennare e così l’anno dopo ci ritorna, ma non va come sperava, a parte un favoloso 3-1 in casa dell’Inter con un Totti in versione gladiatore. Proprio Francesco Totti è il pupillo di Zeman. Nella sua prima esperienza romana designa il “pupone” capitano e lo fa sbocciare in un posto al sole con la sua maglia numero 10. Tre per lui i fenomeni del calcio italico “Rivera, Baggio e Totti”. Che in poche parole lo ha dipinto come nessun altro: “Tu sei unico ed inimitabile, semplicemente tu sei il calcio”. Quest’anno il calcio è tornato a Cagliari, terra che gli somiglia, aspra e lontana da tutto e tutti eppure immersa nella storia, nella commistione di culture, che ne fanno una più grande, un prisma di luce. Figlio della Mitteleuropa, con contaminazioni calcistiche olandesi, il calcio totale degli “orange”, che ha trovato l’esaltazione e l’oblio in Italia. Su facebook una pagina dedicata a lui, “GruppoZeman.com”, ha condiviso, tempo fa un video, tratto dal film “L’arte di vincere” di Bennet Miller del 2011, pellicola sul baseball americano, Reed Diamond, nei panni di Mark Shapiro, dice a Brad Pitt, Billy Beane, parlando della sua capacità di allenare con pochi fondi, “il primo che attraversa il muro è sempre insanguinato, sempre, si sentono minacciati, non è solo un modo di fare affari, nella loro mente è una minaccia per tutto lo sport, ma in realtà è una minaccia per la loro sussistenza, per il loro lavoro, una minaccia per il modo in cui fanno le cose”. Ecco Zdenek Zeman è una minaccia per chi ha reso il mondo del pallone un pozzo monetario senza fondo, mentre un martire insanguinato per chi lo venera come un semi-Dio, che non piega mai la testa. Lo hanno accusato di non essere un vincente, Mario Sconcerti dai microfoni di Sky disse: “Dategli una squadra da decimo posto e Zeman la farà arrivare quinta. Dategli una squadra da primo posto e Zeman la farà arrivare quinta”. Eppure squadre da primo posto non ne ha mai allenate, ha plasmato la Roma e la Lazio degli scudetti a cavallo del 2000. Ha plasmato decine di talenti – Signori, Totti, Immobile, Insigne, Verratti, Vucinic, Schillaci, Di Biagio, Nesta, Di Vaio, Nedved, Osvaldo, Florenzi, ecc… – e plasmato un gioco che ha fatto innamorare una penisola intera, ad ogni latitudine. Antonello Venditti ha tirato in ballo “La Coscienza di Zeman”. Del resto “il sogno è ancora intatto e tu lo sai”.

Lorenzo Cafarchio

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