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Difendo Cadorna! Caporetto cent’anni dopo, oltre le leggende (5)

by La Redazione
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Roma, 27 ott – Eccoci giunti all’ultima puntata della nostra contro-inchiesta storica sulla battaglia di Caporetto. Qui, qui, qui e qui è possibile leggere le prime quattro puntate.

Sul Torre, il 27, il 12° Reggimento Cavalleggeri di Saluzzo perse la metà dei propri effettivi nella carica effettuata nel tentativo di arrestare i tedeschi del gruppo von Berrer.

Nel corso della ritirata il sergente Sivieri rincuorò i propri fanti, abbandonati dal proprio comandante, con una frase destinata a diventare celeberrima, per altri motivi, dopo esser anche stata ripresa da D’Annunzio a Fiume: Boia chi molla!

Il granatiere Giovanni Giuriati, del 2° Reggimento Granatieri di Sardegna, preso prigioniero a Flambro il 30 ottobre, non certo per sua colpa, né per quella degli altri Granatieri, scoppiò a piangere di rabbia:

Si sente dire che ormai hanno fatto saltare il ponte sul Tagliamento, e allora essendo circondati da tanto tempo, ci è toccato abbassare le armi. Ma io e il mio amico Fiorotto e diversi ci siamo messi a piangere dalla rabbia di essere in quelle mani. Iddio sa come andrà di noi [1].

Il 2° Granatieri aveva combattuto tutta la notte, perdendo anche il proprio colonnello comandante, Emidio Spinucci, Medaglia d’Oro alla memoria, che condusse personalmente gli attacchi; il granatiere Giuriati ricorda che oramai circondati, con i ponti della Delizia fatti brillare, i Granatieri attaccarono un ultima volta alla baionetta comandati da un aspirante ufficiale[2]. Forse se a Tolmino ci fossero stati soldati come i Granatieri di Sardegna, i tedeschi non sarebbero passati tanto facilmente.

Di tale opinione era il comandante del XIII° Corpo d’Armata, generale Ugo Sani, che nell’ordine del giorno del 4 novembre 1917 scriveva:

Ieri ho veduto passare la Brigata Granatieri in tale ordine e con tale fierezza militare che il mio cuore di italiano ha esultato, e mi son detto: con tali soldati il nemico non potrà gridare vittoria![3]

Tornando alle cause della sconfitta in conca di Plezzo va considerato il fatto che l’andamento geografico della linea di confine contribuì in maniera decisiva a tramutare un insuccesso d’ordine tattico in una sconfitta di carattere strategico, impedendo l’afflusso delle riserve sui fianchi delle colonne avanzanti, come poté avvenire nel marzo 198 durante l’offensiva Michael sul fronte della V Armata Britannica.

Le perdite italiane in quella che venne chiamata la dodicesima battaglia dell’Isonzo furono di 350.000 uomini di cui solo 10.000 morti[4], 30.000 feriti e ben 265.000 prigionieri, cifra questa indizio del crollo morale verificatosi, anche se non va dimenticato che la maggior parte dei prigionieri vennero presi dopo la distruzione dei ponti sul Tagliamento; a queste cifre vanno aggiunti circa 300.000 sbandati, che vennero in seguito inquadrati nei reparti di marcia.

Furono persi 3000 pezzi d’artiglieria e tutti i magazzini di materiale bellico situati tra l’Isonzo e la riva sinistra del Piave, che rifornirono l’affamato esercito imperiale.

Vennero abbandonate, oltre a tutte le conquiste territoriali fatte in tre anni di guerra durissima anche tutto il Friuli, la Carnia ed il Cadore: ciò provocò l’esodo di circa duecentomila profughi civili (su una popolazione inferiore al milione di abitanti), le cui masse, non disciplinate come sarebbero dovute essere con l’utilizzo di cavalleria e Carabinieri, intasarono e bloccarono le strade verso il Tagliamento, rallentando la ritirata.

Per le popolazioni civili rimaste nei territori occupati l’Austria del 1918 non si dimostrò quella che nel 1866 aveva lasciato un così buon ricordo.

Va obbiettivamente detto che le condizioni materiali dell’esercito imperiale e, soprattutto, della popolazione civile in Austria- Ungheria, compresa la stessa Vienna, erano tali che non era concepibile non avvenisse una vera e propria spoliazione totale dei territori occupati, cui si aggiungeva indubbiamente l’elemento psicologico dell’odio e del disprezzo per i traditori italiani inculcato dalla propaganda.

Dal punto di vista dell’occupazione, al di là di alcune esecuzioni sommarie di presunte spie o di civili che avevano combattuto con gli italiani in ritirata, nei giorni immediatamente seguiti ai combattimenti (come avvenne a Pozzuolo del Friuli) del resto pienamente legittime dal punto di vista del diritto internazionale, le truppe imperiali non commisero sulle popolazioni civili le atrocità che pure erano state compiute dai soldati asburgici contro la popolazione serba nei primi tempi della guerra.

Dapprima i soldati si diedero ai saccheggi individuali (completando l’opera degli sbandati italiani), con la distruzione di quanto non immediatamente trasportabile, come botti di vino, sacchi di farina, e così via senza che a ciò i Comandi facessero seguire sanzioni disciplinari verso i responsabili, cui subentrò l’economia di rapina della Commissione Economica che ridusse alla fame le popolazioni friulane e venete.

Indice di questa condizione sono le cifre relative alla mortalità: nel decennio 1908-1917 si ha una percentuale non superiore al 20 per mille, nel periodo novembre 1917- giugno 1918 raggiunse punte del 65 per mille.

Quali furono le cause principali della clamorosa rotta della 2a Armata dell’Ottobre 1917?

Innanzi tutto quelle militari, cui si aggiunsero in seguito quelle morali.

Le tattiche di infiltrazione delle Stoßtruppen tedesche avevano avuto lo stesso effetto demoralizzante sui difensori che ebbero a Riga e che avranno nel marzo 1918 contro la Va Armata inglese nella Champagne.

La non osservanza da parte di Capello degli ordini di Cadorna n. 4470 del 18 settembre e n. 4741 del 10 ottobre, con la conseguenza che lo schieramento delle truppe dei Corpi d’Armata XXVII (generale Pietro Badoglio) e del IV (generale Alberto Cavaciocchi) entrambi della 2a Armata di Capello non era idoneo alla difesa, con artiglierie troppo avanzate, che non fecero in tempo a sparare, o ritardarono troppo nel farlo, e vennero subito catturate; a ciò s’aggiunga l’errata dislocazione delle riserve settoriali e la mancanza di riserve di scacchiere.

I comandi non erano abituati al modo di combattere delle truppe tedesche, e vennero completamente presi di sorpresa.

Il tiro a gas massacrò le truppe italiane dotate delle maschere polivalenti valide contro la clorina ma inefficaci contro il fosgene; quando sul Piave gli italiani saranno dotati di maschere britanniche SBR la situazione sarà del tutto diversa.

Inoltre, si dimostrarono difettosi i collegamenti delle Armate con il Comando Supremo.

In ogni caso, da un esame obbiettivo degli avvenimenti vanno tratte alcune considerazioni.

Cadorna emanò in tempo utile le disposizioni difensive: abbiano ricordato come già il 18 settembre avesse ordinato il passaggio alla difensiva, ordine confermato il 10 ottobre con la circolare n. 4741. La 2a Armata però non si era attenuta né tempestivamente né completamente alle disposizioni del Comando Supremo.

Né Cadorna poteva prevedere il silenzio delle artiglierie del IV e del XXVII Corpo d’Armata – silenzio in parte dovuto alla distruzione delle linee telefoniche ad opera del bombardamento tedesco – ciò che favorì la trasformazione di un successo tattico in uno di natura strategica.

Una volta iniziato l’attacco nemico vi fu un crollo morale delle truppe della 2a Armata, dapprima artiglierie pesanti e servizi, che fuggirono mentre ancora le fanterie si battevano, trasmettendo poi il panico anche agli altri reparti.

Ciò è stato attribuito al disfattismo di stampo socialista e cattolico, ed è provato dalle grida di viva Treves, Viva Modigliani, viva la Germania! e Viva il Papa, ed allo sconforto di aver subito perdite molto forti per pochissimi vantaggi territoriali; anche il malgoverno degli uomini è stato chiamato in causa per spiegare il crollo morale di ottobre, così come la stanchezza e l’avvilimento dei soldati.

Che questa fosse l’opinione prevalente tra le truppe, lo dimostra un’annotazione fatta dal diciottenne Aspirante Ufficiale dell’VIII reparto d’assalto Ermes A. Rosa, nel suo diario alla data del 20 Aprile 1918:

Tre anni di sanguinosa guerra, certe manchevolezze imputabili a chi conduceva e comandava l’Esercito hanno certo avuto il loro peso nella tragica vicenda di Caporetto, ma molto ha influito anche la propaganda disfattista, tollerata dai governi che si sono succeduti in questi ultimi tre anni, ed in special modo, oltre al disfattismo di una parte del clero, quella attiva, capillare, del Partito Socialista Italiana, culminata nel settembre dell’anno scorso con la rivolta degli operai di Torino capeggiati da un certo Gramsci, che si è dovuta soffocare nel sangue [5].

Abbiamo dovuto citare molti episodi vergognosi di cedimento, di resa, di abbandono del proprio posto. Vogliamo quindi ricordare un episodio dimenticato[6] per rendere il dovuto onore a chi rifiutò di arrendersi o di gettare le armi.

Il sergente dei mitraglieri Felice Fossati, preso prigioniero a Pozzuolo del Friuli ricordò nel suo diario:

…In quell’inferno sono stato testimone della fine di due ufficiali superiori.

Addossati al muro di una casa della piazza scorsi il comandante della cavalleria (sopravvissuto alla sortita) e il nostro maggiore, comandante il 2° Battaglione 25° Fanteria, che spalla a spalla si difendevano dagli attacchi. Allorché apparve chiaro che non c’era più possibilità di scampo, quasi simultaneamente si portarono la pistola alla tempia[7].

Ma non erano soldati della 2a Armata, erano gli uomini del Duca d’Aosta.

Ponendo l’enfasi su quanto avvenuto nel settore della 2a Armata, si trascura spesso il fatto che anche nel settore della 3a si ebbero scontri piuttosto duri dal 24 al 27 ottobre.

Facciamo dunque un passo indietro

La 1a IsonzoArmee del generale Wenzel Wurm attaccò infatti frontalmente l’XI ed il XIII Corpo d’Armata nel punto di giunzione tra le due grandi unità, ossia tra Castagnevizza ed il Faiti Hrib, senza però che alcuna posizione importante andasse perduta, malgrado il logoramento nei continui attacchi e contrattacchi della 14a e 58a Divisione imperiali; quando arrivò l’ordine di ritirata, le truppe del Duca d’Aosta poterono pertanto ripiegare ordinatamente[8].

Il 26 ottobre infatti, Cadorna ordinò a Capello ed al Duca – cui l’ordine era già stato dato verbalmente ad Udine il 25, alle otto e trenta del mattino – di effettuare subito e rapidamente lo sgombero delle artiglierie di medio e grosso calibro, meno mobili, oltre il Piave – segno che non considerava definitiva la linea del Tagliamento – concentrandole intorno a Treviso, e che la 3a Armata iniziasse il ripiegamento:

(…) Ripiegamento delle artiglierie. Nella sosta al Tagliamento le armate 2a e 3a debbono schierare (…) soltanto le artiglierie di piccolo calibro, pesanti campali e qualcuno dei medi calibri più mobili. Le rimanenti artiglierie di medio e grosso calibro devono essere sgombrate per cura delle singole armate a ponente del Piave. Il comando generale dell’artiglieria (…) curerà il collocamento di queste artiglierie nella regione Sile – Treviso – Montello (…)

F.to: il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito L. Cadorna.

Analoghe disposizioni erano state già date al comando della 4a Armata:

(…) V.E. provveda fin d’ora al ritiro delle batterie di grosso e medio calibro di tipo meno antiquato e meno mobili nonché allo sgombero dei materiali ingombranti. Tali materiali devono essere diretti sulla destra del Piave verso Pederobba- Asolo- Montebelluna (…)

f.to generale Cadorna

Il 31 ottobre, quando le proprie truppe ultimarono il passaggio del Tagliamento, Emanuele Filiberto scrisse a Cadorna, sottolineando il buon comportamento delle proprie truppe in contrasto con quello degli sbandati della 2a Armata, definito terribile e schifoso:

di G. – 31- 10 ore 18

Caro Generale.

Sono fiero e felice [di] poterle dire che quasi tutte le mie truppe – quelle della sempre gloriosa III Armata – sono radunate e con esse quasi tutte le artiglierie – al di qua del T. [agliamen]to.

Quello che hanno fatto i miei soldati e specie gli ‘artiglieri’ per portare le artiglierie in salvo sono cose da epopea.

Io con i miei soldati che ho educato al dovere ed onore col cuore sono sicuro mi risponderanno sempre.

Sono nauseato scusi la parola del contegno degli sbandati (II A.) e mi permetto di dirle che se non si prendono provvedimenti speciali – non se ne farà niente- inquineranno l’Esercito che ancora è saldo e compreso della situazione del momento. Quello che vedo e sento è terribile : tutti felici del successo: e che ripeteranno: solo modo per finire “la guerra”:vili e [segue una parola illeggibile] ripeto è terribile e schifoso.

Sempre col pensiero e col cuore ad una grande Italia.

Sono Suo Aff.mo Amico

  1. F. di S. [9].

Purtroppo non tutti i generali ebbero la forza del Duca e la sua fiducia nei propri soldati!

La ritirata della 3a Armata dal Carso aveva colto di sorpresa Boroevich, che tardò a porsi all’inseguimento con le proprie truppe[10].

Intanto il 30 ottobre, anziché perdere la testa, Cadorna aveva impartito gli ordini dettagliati per lo schieramento delle artiglierie oltre il Piave:

Lo schieramento si fa sulle sponde del Piave con più linee susseguenti in profondità

Se troppi tra generali e semplici soldati avevano perso la testa in preda al panico, il Comandante aveva mantenuto la propria lucidità e dimostrò di avere nervi d’acciaio, da vero piemontese.

Il brillamento dei ponti portò all’isolamento di molti reparti, oltre a masse di sbandati, ed alla loro cattura, come avvenne alla Brigata Bologna, che per tutta la giornata del 31 ottobre e la mattinata del 1 novembre aveva bloccato l’offensiva austro- tedesca, per la distruzione del ponte di Pinzano

La Brigata Bologna respinse per tutta la giornata del 31 ottobre gli assalti del gruppo Stein, comportandosi assai bene, tanto che quando dovette arrendersi a causa del brillamento del ponte di Pinzano alle 11,25 del 1 novembre, ciò che rimaneva del 40° Reggimento fanteria ricevette da un picchetto d’onore tedesco l’onore delle armi nella piazza di San Daniele del Friuli alla presenza dei generali von Below, Krafft e von Stein.

Below volle rivolgere un breve discorso ai prigionieri:

E’ giusto ed è mio dovere di soldato riconoscere e concedere l’onore delle armi e chi con tanto valore seppe riscattare l’onore del proprio esercito la propria Bandiera e la propria Patria a prezzo del sacrificio [11].

Va detto per obbiettività che se le fonti italiane hanno sempre parlato di un brillamento intempestivo dei ponti, lo stesso comandante tedesco von Below nel suo diario scrisse che i ponti vennero fatti saltare proprio quando i primi motociclisti germanici li avevano raggiunti e si apprestavano a varcarli:

Di buon mattino la 200a divisione attacca la testa di ponte di Bonzicco (Dignano), la prende alle 6, ma gli ultimi cinquanta metri, dove il fiume è più profondo, sono saltati, e la zona è battuta dalle mitragliatrici[12]

Sulla base della testimonianza del comandante tedesco il brillamento dei ponti fu in realtà tempestivo, e, malgrado avesse provocato l’isolamento della Bologna salvò l’intero schieramento italiano dall’accerchiamento che avrebbe sicuramente comportato un disastro ancora maggiore di quello avvenuto in conca di Plezzo.

Anche Ardengo Soffici ricordò come, sul ponte di Dignano,

…Abbiamo visto che qualcuno vi si muoveva sopra con cautela (…) Tutti, ufficiali e soldati, dalle nostre buche nel greto dove eravamo nascosti con le nostre mitragliatrici, abbiamo aguzzato meglio gli occhi, e subito abbiamo capito di che si trattava. Una pattuglia nemica veniva in quel modo per esplorare il ponte e riferir poi a chi l’aveva mandata ciò che aveva visto.

Zitti, senza muoverci, raggomitolandoci ancora di più nella ghiaia, abbiamo lasciato che s’avvicinasse. E i quattro o cinque uomini si sono infatti avvicinati. Non solo, ma, non vedendo nessuno, hanno finito coll’arrivare si proprio in testa alla campata, dov’erano i nostri ieri sera, e lì alzatisi, in gruppo, si son messi a guardare nel fiume, nell’acqua lucida nel quale spiccavano col loro lungo pastrano come statue oscure.

– Fuoco! – ha urlato il comandante della sezione.

E una tempesta di scoppi e di sibili ha lacerato l’aria sorda e immota. Alcuni di quegli uomini sono precipitati a rifascio nella corrente che li ha trascinati con sé; gli altri sono caduti sulle tavole del ponte dove sono rimasti come un monte di stracci bigi e luridi.

Intanto il giorno si apriva sempre più e già sulla ripa di contro si cominciava a distinguere altra truppa nemica. Qualche cosa che somigliava ad una colonna mista di uomini e di muli, appariva e spariva come marciando lentamente lungo la strada frondosa tra Dignano e Bonzicco[13].

Insomma, malgrado quanto polemicamente ripetuto in più o meno buona fede per motivi polemici, il brillamento del ponte di Dignano avvenne nel momento più opportuno: una qualche dilazione si sarebbe conclusa con la conquista da parte degli austro- tedeschi.

Gran parte delle truppe che caddero in mano nemica appartenevano alla 2a Armata, che aveva ricevuto ordine di transitare sui ponti della Delizia, intasati da masse di soldati e di profughi, e fatti brillare alle 13 del 30 ottobre.

Si salvò il XXIV Corpo del generale Caviglia che disubbidendo volutamente agli ordini, visto l’intasamento dei ponti della Delizia, aveva fatto transitare le proprie truppe sul ponte di Latisana, destinato all’attraversamento dei reparti della 3a Armata.

Una prima difesa venne imbastita sul Tagliamento, linea che venne investita tra il 31 ottobre ed il 4 novembre.

Si trattava di una linea di difesa considerata provvisoria da Cadorna, che infatti aveva già ordinato il 25 il ripiegamento dei pezzi di grosso e medio calibro della 3a armata oltre il Piave.

Lo scopo era ritardare l’avanzata avversaria permettendo il ripiegamento delle artiglierie, il loro riposizionamento parte lungo la sponda destra del Piave, parte nel trevigiano- in vista di un possibile ulteriore cedimento della difesa sul Piave- per poi ripiegare sulla Livenza, per imbastire una seconda linea di contenimento che permettesse lo schieramento sulla riva veneta del Piave del grosso della 3a Armata e di ciò che rimaneva della 2a. Come previsto, una seconda linea di contenimento venne allestita sulla linea della Livenza, sino all’otto novembre, quando tutte le truppe superstiti raggiunsero la linea del Piave, non si sapeva ancora quanto provvisoria.

In quello che fu il suo ultimo proclama all’esercito, diramato il 7 novembre, Cadorna scrisse:

Noi siamo inflessibilmente decisi: sulle nuove posizioni raggiunte, dal Piave allo Stelvio, si difende l’onore e la vita d’Italia. Sappia ogni combattente qual è il grido e il comando che viene dalla coscienza di tutto il popolo italiano: morire, non ripiegare.

Prima e dopo Caporetto, l’opinione pubblica italiana restò totalmente sviata dalla realtà: tutte le responsabilità della sconfitta vennero – e vengono – addossate a Cadorna. Né mancarono molti dei nemici che egli si era creati a dare una parvenza di tecnicismo a tanti stolti giudizi ed a diffonderli.

A colui che aveva fatto del Regio esercito uno strumento in tutto degno degli altri eserciti europei, che partendo da strutture arrugginite ne aveva fatta una massa possente, all’organizzatore, a colui che nelle giornate successive allo sfondamento, con uno strumento che gli si era spezzato nelle mani era riuscito a ritirarsi sul Piave e sul Grappa, costringendo l’avversario ad allungare le linee di rifornimento tanto da indebolire in maniera decisiva lo sforzo offensivo, dimostrandosi nell’avversità uomo e condottiero di tempra e forza morale straordinaria, riuscendo a trarre profitto di tutti i fattori positivi di resistenza, riscossa morale ed alla fine di vittoria nella disfatta in cui, in una mano meno capace, tutto l’esercito sarebbe forse andato perduto – e lo si vide in casi analoghi nella Seconda Guerra Mondiale: si pensi, per limitarci al Regio Esercito, al panico di cui cadde preda il Maresciallo Graziani durante l’offensiva di O’Connor in Africa settentrionale nel dicembre – febbraio 1940- 1941, al comportamento di Visconti Prasca in Grecia nell’autunno del 1940 -, al Generalissimo, dicevamo, venne tolto il comando con un atto non soltanto ingiusto, ma anche di grande leggerezza. Eppure, c’era chi lo considerava il vero vincitore della battaglia iniziata in Conca di Plezzo: e questi era il suo più grande nemico, il Maresciallo Conrad von Hötzendorf, che nella lettera alla moglie del 3 gennaio 1918 che si è già citata – quella in cui il generale austriaco sosteneva che la rimozione di Cadorna era il maggior risultato dell’offensiva – concludeva con righe che, vergate dal più implacabile nemico dell’Italia, sono il più alto omaggio al Generalissimo ed al Regio Esercito:

(…) Certo abbiamo ottenuto un lungo respiro, ma non possiamo più contare sulla vittoria decisiva in Italia. Cadorna, come un vecchio leone, prima di cedere ci ha sferrato una tremenda zampata sul Piave. Egli ha saputo rianimare gli Italiani e noi abbiamo assistito ad un fenomeno che ha del miracolo. Gli Italiani si sono riavuti con una rapidità inaspettata e combattono con grande valore. Quanto ai Franco – Inglesi sul fronte italiano essi non ci danno nessun fastidio. A tutti noi fa impressione ch’essi in Italia siano venuti a riposare e non a combattere. E’ solo contro gli Italiani che abbiamo fino ad ora combattuto[14].

[1]          Ass. Naz. Granatieri di Sardegna, Sezione Provinciale di Treviso (cur.) Diario di guerra del granatiere Giuriati Giuseppe, Treviso 1935, pp.38-39

[2]          Per il suo comportamento durante la ritirata la Brigata Granatieri venne citata per la quinta volta nel bollettino di guerra n.896 del 6 novembre.

[3]          Comando del XIII C.d.A., ordine del giorno del 4 novembre 1918, cit. in E. Cataldi, Storia dei Granatieri di Sardegna, 2° ed. Roma 1990, p. 183.

[4]          Rispetto a circa 50.000 caduti e feriti austro- tedeschi.

[5]          E. A. Rosa, in Rosa, Lommi, Gli Arditi sul Grappa, cit., p.100.

[6] Nel suo citato lavoro sulla battaglia di Pozzuolo del Friuli Giacomo Viola non fa menzione di quest’episodio.

[7] Felice Fossati, Diario di guerra. Dalla Libia all’Isonzo (1913- 1919), Chiari 2003, p.60. Lo stesso Fossati ricorda ancora:

Capivo che quella resistenza era inutile, sentivo intorno a me i compagni che imprecavano, che gridavano, che piangevano. Ma non volevamo arrenderci .(Ibid., p. 61).

[8] Silvestri, Isonzo 1917, cit., p. 457.

[9] Riprodotta in Faldella, La Grande Guerra, II, cit., p. 263 (i corsivi sono del Duca)..

[10] Seth, Caporetto, cit., p. 194).

[11] O. von Below (cit. in Cervone, Vittorio Veneto, l’ultima battaglia, Milano 1994, p.55).

[12] F. Ladini, Caporetto dalla parte del vincitore. Il generale Otto von Below e il suo diario inedito, Milano 1996, p.259.

[13] Soffici, La ritirata del Friuli, cit., pp.152- 153.

[14]  Lo scarso concetto che il Conrad aveva dei franco- britannici lo portò ad attaccare il 15 giugno 1918 proprio nei settori tenuti da inglesi e francesi sul Grappa, ottenendo successi iniziali contro le truppe del gen. Babington e volgendo in fuga il 78e Regiment d’Infanterie occupando l’Opèra Brutus sul Grappa (Romeo di Colloredo, Solstizio, cit., pp.123 segg.).

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