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Nella terra degli Ari, reportage dall'Iran/2: tra Persia e Roma, destini imperiali

by Eugenio Palazzini
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iran maineTeheran, 26 ago – Piove. E all’improvviso scopri che la Persia non è solo una perla ai margini del deserto. Il minibus percorre a velocità inconsulta i continui tornanti della strada che taglia i brulli Monti Elburz tra Gorgan e Teheran, una brusca frenata dell’autista di fronte all’ennesimo dosso concede una doccia alle pagine de “La via per l’Oxiana” che tento imperterrito di leggere. Sopra di noi la cima del leggendario Damavand, la più alta del Medio Oriente con i suoi 5610 metri e incredibilmente simile al Monte Fuji, è ammantata di neve. Pochi chilometri a nord, nelle tiepide acque del Mar Caspio si estrae incessantemente il caviale Beluga, monopolio di Stato e oro nero secondo solo al petrolio, che ogni anno frutta all’Iran oltre 20 milioni di dollari di introiti.
iran 9Acqua e fuoco – Più a sud una sottile linea rossa unisce il tempio del fuoco di Yazd, al cui interno la fiamma sacra secondo i fedeli arde ininterrottamente dal 470 a.C., al villaggio di Chak Chak. Qui la principessa Nikbanou, figlia dell’ultimo re sasanide Yazdgegerd III, si rifugiò per sfuggire alla cattura degli arabi invasori. Da allora l’intera Persia è islamica. Percorro la ripida scalinata fino alla cima della montagna che secondo il mito si aprì per poi chiudersi all’arrivo dell’esercito nemico, impedendo così la cattura della principessa. Incredibilmente dalla fessure della roccia esce acqua di continuo, in uno dei luoghi più aridi della terra (non piove più di due volte all’anno). Per gli zoroastriani sono le lacrime di dolore che la montagna versa continuamente in memoria di Nikbanou, da qui il nome Chak Chak, “goccia a goccia”. Decine di fedeli ad Ahura Mazda giungono quotidianamente in pellegrinaggio a questo tempio del fuoco e per quattro giorni consecutivi ogni anno la Repubblica Islamica dell’Iran permette l’accesso al sito soltanto agli zoroastriani (ai quali è riservato tra l’altro un seggio in Parlamento), per impedire che i loro riti vengano disturbati da estranei. Allo stesso modo il governo di Teheran garantisce il libero culto ad ebrei e cristiani (ad entrambi spettano due seggi in Parlamento di diritto), i quali possono arrivare teoricamente ad impedire l’accesso a sinagoghe e chiese ai non appartenenti alla loro fede. Ma l’acqua non è elemento qualunque neppure per gli sciiti. Durante la battaglia di Kerbela, mito fondativo della Shia, l’esercito di Hussein, circondato dai nemici, rimase senza acqua. Il terzo imam andò incontro alle truppe omayyadi con il figlio tra le braccia, ma dopo aver dissetato il bambino un combattente nemico lo uccise di fronte al padre. E’ per questo che in ogni moschea iraniana, come in ogni luogo aperto al pubblico, è presente almeno una fontanella di acqua potabile. Perché nessuno resti più assetato.
iran 3Aria – Nei vicoli della città vecchia di Yazd ci si aggira rasenti ai muri di fango delle case per conquistare gli sporadici spazi d’ombra. L’aria torrida toglie il fiato ancor più della straordinaria Moschea del Venerdì, rivestita di raffinatissime maioliche blu. Ma vagando nella calura estiva tra i borghi della “sposa del Kavir”, un’oasi di ormai 500mila abitanti incastonata tra i deserti del Kavir e del Lut, lo stupore vince l’affanno di fronte alle geniali baghdir. Decine di Torri che da secoli sfruttano l’energia del vento immettendo all’interno delle case aria fresca, raffreddata ulteriormente da vasche di acqua sotterranee. A Yazd, anche quando il termometro segna 40 gradi e più, i moderni condizionatori potrebbero apparire superflui. Come inutili sembravano finanche crematori e cimiteri per gli zoroastriani. Di torre in torre, en plein air nelle Torri del Silenzio fino a pochi anni fa lasciavano divorare dagli avvoltoi i corpi dei defunti per non contaminare aria e terra, forze creative pure da venerare come l’acqua e il fuoco. “Spettrali e al contempo bellissime, sono parte della nostra cultura da iran 1salvaguardare”, dice fiero Amir, tassista musulmano che per diletto e qualche rial in più mi indica le rovine delle torri appollaiate sulle colline che circondano la città, fornendomi una lezione di storia locale.
Ed è sempre l’aria l’elemento dominante alla sera, quando assisto ad un’esibizione di Zurkaneh, letteralmente “casa della forza”, un’antica ginnastica persiana a metà tra arte marziale e danza derviscia. Al ritmo di un tamburo tradizionale e del canto che evoca versi coranici e del poeta Hafez, atleti di ogni età si esibiscono facendo roteare sopra la testa pesanti catene di ferro, lanciando in aria enormi birilli e volteggiando come danzatori sufi. Forza e spirito.
Terra – Freddo. Sull’autobus Vip che percorre il lungo e arido tragitto tra Yazd e Teheran maledico l’inventore dell’aria condizionata, per la cronaca sepolto a Buffalo negli States ma purtroppo mai raggiunto da fatwe. Che sempre per la cronaca sono erroneamente tradotte come “condanne a morte”, mentre in realtà sono semplicemente risposte date da un giudice qualora interpretato su un determinato argomento riguardante la liceità o meno di uno specifico comportamento secondo la Sharia (“legge di Dio), la legge islamica anch’essa spesso interpretata a casaccio e in senso forzatamente negativo in Occidente. Freddo e stereotipi a parte, in Iran gli autobus sono modernissimi, puliti e puntuali. Tanto per tornare agli stereotipi: esattamente l’opposto dei pessimi Greyhound statunitensi.
iran 5Ad attendermi a Teheran c’è Hosseyn, romano di nascita e portavoce dell’Associazione Islamica Imam Mahdi. Con lui visito l’Holy Defence Museum, realizzato in un’area di 21 ettari nel quartiere di Abbas Abad per omaggiare i caduti nella guerra contro l’Iraq, celebrare l’eroismo dei combattenti iraniani e promuovere la cultura della resistenza nazionale. Oltre la Moschea Khorramshahr, uno dei simboli della rivoluzione khomeinista e poi della lotta contro gli iracheni, sono esposti decine di mezzi militari (carri armati, caccia, veicoli blindati, missili) catturati dall’esercito iraniano durante gli otto anni di guerra a testimonianza dell’ingente supporto internazionale all’Iraq. “Eravamo soli contro tutti – mi dice il giovane studente universitario di storia che mi accompagna insieme a Hosseyn – avevamo appena concluso la rivoluzione contro lo Scià e sia Saddam che gli Stati Uniti pensavano fosse il momento giusto per abbatterci. Invece, nonostante avessimo pochissime armi, iran 7oltretutto vecchie e malfunzionanti, abbiamo dimostrato al mondo intero cosa significa essere un popolo libero. Perché nessuno aveva fatto i conti con due fattori determinanti: la nostra profonda fede e la disponibilità assoluta al sacrificio”. Percorrere le sale del museo, ottimamente allestito con tanto di stanze sensoriali per evocare i climi estremi del deserto e delle montagne in cui erano stanziate le truppe, è un tuffo negli anni ottanta di una Nazione i cui giovani combattevano, e spesso morivano, per difendere la propria Terra. Mentre in Europa tra noia e malinconia si facevano largo musica dance ed eroina.
Spy story – Ricorderete la crisi degli ostaggi in Iran, ovvero la rottura diplomatica generatasi con l’occupazione dell’ambasciata statunitense di Teheran da parte di studenti iraniani, che presero in ostaggio 52 membri della rappresentanza americana. Oggi l’ex ambasciata è stata trasformata in museo o meglio nel “Covo dello spionaggio americano”. Purtroppo visitabile soltanto pochi giorni all’anno, lo trovo chiuso. Hosseyn mi spiega che al suo interno sono in mostra i documenti ritrovati nell’edificio durante l’occupazione degli studenti che testimoniano il ruolo chiave di spionaggio svolto dai servizi americani, i quali progettavano probabilmente un iran 8nuovo colpo di stato dopo quello architettato nel 1953 ai danni del governo di Mossadeq. Sulle mura esterne del “Covo” enormi murales, tra questi il più impressionante è il volto della Statua della Libertà raffigurato come un teschio, condannano le aggressioni Usa e celebrano la rivoluzione islamica.
“Dopo tutti questi anni di sanzioni, attacchi mediatici, fango gettato su di noi, nessuno può opprimerci. Abbiamo dimostrato di saper resistere a qualunque cosa”, ne è sicuro Ali Jafarabadi, direttore dell’Istituto Culturale Imam Moussa Sadr. E’ lui ad accogliermi, offrendomi tè e torroncini al pistacchio, all’interno del centro aperto dalla figlia dell’Imam per diffondere le idee del padre e proseguire le sue ricerche. Moussa Sadr scomparve nel 1978 in Libia, per alcuni fu fatto uccidere da Gheddafi che ne temeva il carisma, per altri è ancora in vita e tenuto prigioniero a Tripoli. Di sicuro si tratta di una delle figure più importanti e al contempo misconosciute del Medio Oriente. Iraniano, poliglotta e apprezzato anche dalle comunità cristiane per il suo equilibrio, fu il fondatore in Libano del movimento Amal. Sadr è tuttora considerato figura di riferimento da Hezbollah che ne ha recentemente parlato così: “Imam Musa al-Sadr è l’imam della resistenza, l’imam del dialogo, dell’apertura e della moderazione. Il percorso, l’approccio e le idee di Imam Sadr rimarranno il faro che illumina il nostro modo di affrontare le minacce che colpiscono la nostra nazione e in particolare il pericolo rappresentato dal terrorismo.”
Ali mi racconta che anche l’Italia in qualche modo non fu estranea alla sua scomparsa. “Alcuni sostengono che l’Imam partì da Tripoli con un volo diretto a Roma – mi dice il direttore dell’Istituto – la magistratura italiana anche su nostra sollecitazione ha indagato esprimendo in più di vent’anni tre responsi: prima ha sostenuto che non era mai giunto in Italia, poi ha rettificato dicendo che forse sì ma se ne erano perse le tracce, di nuovo ha cambiato idea dicendo che no, a Roma non ha mai messo piede.” Ali mi guarda perplesso. Purtroppo dopo giorni di continuo stupore in Iran, ricordo che l’Italia ha smesso di stupirmi. Ma è Mohammad, uno studente di Ingegneria che incontro in un caffè di Teheran, a tenermi sul pezzo: “Ricordatevi che voi avete avuto l’Impero Romano, noi quello Persiano. Siamo entrambi destinati ad essere il centro dei nostri mondi. Ed anche se a volte ci siamo scontrati, nessuno potrà mai fare a meno di noi. Basta guardare una cartina geografica per capirlo.”
Sta a noi decidere quindi, stupor mundi o spy story?
Eugenio Palazzini
Clicca qui per leggere la prima parte del reportage 

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