Roma, 6 apr – Il 24 giugno 1943, in Campidoglio, Giovanni Gentile pronunciò un celebre Discorso agli italiani. Il contesto dell’allocuzione è noto: il conflitto mondiale volgeva al peggio, e il fascismo provò a mobilitare gli intellettuali organizzando a Roma, Napoli e Milano conferenze intitolate alle Ragioni della nostra guerra. L’offerta fu rivolta anche a Gentile, che, testimonia il figlio Benedetto, «fu il solo, tra i tanti ai quali lo stesso invito pervenne, a non trarsi indietro». Accadde allora che il quasi settantenne filosofo, sciogliendo un inno all’«ideale dello Stato corporativo, che è in cammino [e] che oggi è appena al suo inizio», se ne uscì con una sorta di appello alla collaborazione rivolto ai comunisti. «Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente», dichiarò: alludendo così a quei comunisti che, per attuare il progetto di giustizia sociale cui dicevano di aspirare, invece di accogliere il corporativismo (con le sue potenzialità rivoluzionarie), si erano schierati contro il fascismo, che del corporativismo aveva fatto la sua bandiera. I «corporativisti impazienti», però, fecero orecchie da mercante. Furono anzi i gappisti legati al Pci, nell’aprile 1944, ad assassinare il filosofo, in ossequio a una strategia che, scrive Renzo De Felice nella sua biografia di Mussolini, serviva a creare attorno a essi un «alone di forza e di onnipresenza», prendendo di mira «obiettivi molto noti e simbolici». E ispiratore dell’omicidio fu, osserva Marcello Veneziani, «l’Intellettuale Collettivo»: in gergo gramsciano, il Partito comunista.
Il corporativismo come alternativa al capitalismo
L’«apertura» di Gentile ai «rossi» si fondava sull’idea del corporativismo come alternativa al capitalismo: in nome dell’auspicata (dal filosofo) pacificazione nazionale, era un possibile terreno d’intesa con i comunisti i quali però, di lì a poco, dopo il golpe del 25 luglio 1943, avrebbero iniziato a organizzarsi per la lotta armata. E la cui intellighenzia, quella stessa che avrebbe plaudito all’assassinio di Gentile, era in buona parte costituita, segnala Roberto Ciuni nell’Italia di Badoglio, «da intellettuali che avevano partecipato ai Littoriali, erano stati nei Guf [i Gruppi universitari fascisti], avevano scritto di cinema, teatro e letteratura per riviste del periodo finale del ventennio e si erano distaccati anche dalle ideologie più aperte del regime fino ad aderire al marxismo». Gentile, quindi, in nome del corporativismo si appellò ai comunisti, nelle cui file si contavano molti ex «gufini» insoddisfatti per il mancato realizzarsi delle «ideologie più aperte» germinate in campo fascista: come la proposta della corporazione proprietaria avanzata nel 1932 da Ugo Spirito, che di Gentile era stato allievo. Da una parte Gentile, il «filosofo del fascismo»; e, dall’altra, gli aspiranti rivoluzionari che, delusi dalle promesse non mantenute della «svolta corporativa», avevano abbracciato il comunismo marxista. Gentile e Marx, dunque: idealismo attualista e materialismo storico. In termini politici, fascismo e comunismo: le classiche rette parallele che non dovrebbero mai incontrarsi. Ma andò davvero così?
Sinistra fascista e gli scritti su Marx del giovane Gentile
Torniamo allora a Spirito, che Alberto Aquarone (L’organizzazione dello Stato totalitario) annovera tra gli esponenti del «fascismo di sinistra». In un testo retrospettivo del 1976 (Il socialismo di Giovanni Gentile) Spirito afferma che il maestro «[era] stato sempre socialista», in forma più o meno consapevole, sin dagli scritti giovanili su Marx: Una critica del materialismo storico e La filosofia della prassi, che confluirono nel 1899 nella Filosofia di Marx. Lavori, aggiunge Spirito, «a poco a poco dimenticati […] dallo stesso Gentile, che per decenni non si occupò più […] del socialismo e del comunismo». Fu solo nel 1932, sull’onda delle polemiche suscitate dalla tesi della corporazione proprietaria, «che Gentile si trovò di fronte al problema della comunistizzazione dei beni, dell’abolizione della proprietà privata». E allora «si ricordò che da giovane si era occupato di Marx e […] cedette alla preghiera degli amici che desideravano che quel libro fosse ristampato». Il che avvenne nel 1937. Dalla prima edizione della Filosofia di Marx alla ristampa trascorse dunque quasi un quarantennio, con molta acqua passata sotto i ponti. Mussolini era all’apice della sua potenza e in Russia, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, era sorto un regime che aveva reso il marxismo una filosofia di stato: l’Unione sovietica. Il cui artefice, Lenin, a detta di Gentile, a «quel mio volumetto» (il lavoro del 1899) aveva prestato attenzione, «addita[ndolo] tra gli studi più notevoli che intorno a Marx avessero compiuti filosofi non marxisti».
Non solo Gentile: l’Italia di Mussolini e la Repubblica dei Soviet
Nel 1937, quindi, uno tra i più prestigiosi intellettuali fascisti ricordava compiaciuto l’elogio rivoltogli dal fondatore della Repubblica dei Soviet: un Paese contro cui l’Italia mussoliniana si sarebbe di lì a poco scontrata in una guerra sanguinosa ispirata al motivo della «crociata antibolscevica». Eppure, le relazioni tra la prima nazione fascista d’Europa e la «Patria del socialismo» non erano sempre state così conflittuali. Il governo di Mussolini, per dire, fu tra i primi in Occidente a riconoscere l’Unione sovietica nel 1924, e quasi un decennio dopo, nel 1933, stipulò con essa un «trattato di amicizia». Fu quella una scelta dettata solo da pragmatismo in politica estera? Forse sì e forse no. L’attenzione fascista per l’Urss, in realtà, fu anche ideologica. Attenzione per la filosofia ufficiale sovietica, come testimonia la discreta messe di libri marxisti dati alle stampe in Italia negli anni Trenta. E, anche, per l’economia di piano staliniana, soprattutto tra i fascisti che, come Spirito e altri gentiliani, gravitavano attorno alla Scuola di scienze corporative fondata a Pisa da Giuseppe Bottai; nel cui ambiente, si legge nel Mussolini di De Felice, «la pianificazione sovietica aveva suscitato un vasto interesse».
Il fascismo sulla via di Mosca?
Se in effetti vi furono, nell’Europa tra le due guerre, marxisti o fuoriusciti dal marxismo, come Henri de Man e Marcel Déat, che subirono la «tentazione fascista», si ebbero allora in Italia fascisti «tentati» dal marxismo sovietico? La risposta è sì. Ed emblematico fu, a tal proposito, un episodio ricostruito da De Felice. Si tratta dell’acceso dibattito sui rapporti tra fascismo e comunismo svoltosi nel 1931 sulle colonne di «Critica fascista», la rivista di Bottai. Una discussione durante la quale, evidenzia il biografo del Duce, vi fu chi rivelò «un interesse e una disponibilità per l’esperienza sovietica veramente notevoli, tanto da giungere […] a prefigurare un avvicinamento tra “Roma e Mosca”»; posizioni iperboliche o provocatorie, forse – come quella di Bruno Spampanato, che arrivò a definire il bolscevismo un «preludio del fascismo» – le quali però, sovrapponendosi alle tesi «comunistiche» di Spirito, sconcertarono i fascisti «tradizionalisti». Parecchi, come Carlo Costamagna, si dissero infatti preoccupati che il corporativismo venisse declinato, travisandolo, secondo «il concetto sovietico di una statizzazione dell’economia»; e in molti condivisero l’angosciato grido d’allarme di Guido Cavallucci: «il fascismo è sulla via di Mosca?».
Chi nel Pci e chi a Salò
Il fascismo, a Mosca, in realtà non andò mai. Dopo la guerra d’Etiopia, e in concomitanza con l’intervento in Spagna, le istanze socioeconomiche più radicali furono accantonate e l’opposizione al bolscevismo tornò a costituire uno dei cardini dell’ideologia del regime, seppur declinata nell’ottica di una «terza via» che polemicamente equiparava materialismo sovietico e capitalismo borghese. A voltare le spalle al fascismo, imboccando la strada moscovita – o meglio confluendo nella succursale italiana dell’Urss: il Pci – furono invece molti tra i delusi dal corporativismo ricordati da Ciuni. Altri, che pure rimasero fascisti dopo avere «flirtato» con i Soviet, «andarono a Salò» per sostenere, con la Repubblica di Mussolini, la svolta socializzatrice. Come fece Spampanato, che diresse «Il Messaggero» fino all’ingresso degli Alleati a Roma e poi, salito al Nord, collaborò alla «Stampa», per aderire al Msi nel dopoguerra. Quanto infine a Spirito, il quale da Salò si tenne lontano, l’ex esponente della sinistra fascista che nel ventennio si era mostrato disponibile a un «incontro» tra fascismo e comunismo su basi anticapitalistiche, negli anni della Guerra Fredda provò invano a riporre le sue speranze di rinnovamento nei Paesi del socialismo reale: nell’Urss post-staliniana prima, e poi nella Cina maoista.
Corrado Soldato