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Il Patto d’Acciaio e quell’Italia senza altre vie d’uscita

by Stelio Fergola
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Patto D'Acciaio

Roma, 22 mag – Il Patto d’Acciaio come l’inizio della fine, per molti anche se non per tutti. L’argomento è dibattuto, anche negli ambienti culturalmente di provenienza fascista. Il momento in cui l’Italia di Benito Mussolini si legò indissolubilmente alla Germania di Adolf Hitler è senza dubbio un momento di definizione e su quello non c’è diatriba che tenga. La genuinità con cui il Duce ci si avvicinò è ben altra questione, tra le scelte incomprensibili circa la formulazione delle leggi razziali appena l’anno precedente e l’oggettivo isolamento voluto da altri dopo l’impresa d’Etiopia. Era il 22 maggio 1939, la guerra in Europa stava per scoppiare e Roma si trovava di fronte a uno dei bivi più clamorosi della sua storia.

Patto d’Acciaio, la strada obbligata dell’Italia

La verità è che l’Italia non aveva molta scelta. Questo sebbene l’avvicinamento alla Germania fosse stato avviato già nel post-1936 e della proclamazione dell’Impero, ovvero nel contesto di una guerra d’Etiopia decisamente mal digerita dagli interlocutori francesi e britannici. Le sanzioni della Società delle Nazioni fecero il resto. Mussolini stesso non era convinto appieno della firma dell’accordo fino a poco prima che il suo ministro degli Esteri Galeazzo Ciano e quello tedesco, Joachim Von Ribbentropp, lo ratificassero. Patti chiari, oltre che d’Acciaio. Che però spingevano l’Italia verso la difficoltà di rimanere neutrale, visti gli articoli 3 e 4 dell’accordo che prevedevano assistenza militare e diplomatica a seconda delle “complicazioni belliche” che l’uno o l’altro alleato avrebbe dovuto affrontare.

Un momento di apice durato poco e la strada senza uscita

L’Italia era in quel momento la prima o seconda potenza politica in Europa. Il prestigio di Roma aveva raggiunto i suoi massimi storici dell’era moderna e contemporanea con la pace di Monaco di quasi otto mesi precedente. Sarebbe durata poco, perché a potenza politica non corrisponde necessariamente potenza militare, anche se spesso i due aspetti coincidono.

L’Italia fascista favorì una “dissociazione eccezionale” sul tema: aveva dimostrato di saper scalare tutti i vertici della forza in termini di politica internazionale, non altrettanto si era preparata militarmente, anzi. Ma il mondo ancora non lo sapeva. Non lo sapeva Adolf Hilter, che peraltro avrebbe dovuto far fronte a un’altra forza a lui sconosciuta nel corso della guerra (quella sovietica), non lo sapevano la Francia e la Gran Bretagna, che non casualmente seguirono Mussolini nella sua operazione diplomatica del 29 e 30 settembre 1938, guando riuscì a rinviare il conflitto di un anno circa. Il Duce, in compenso, lo sapeva benissimo. E non aveva alcuna intenzione di partecipare a una guerra per la quale sapeva di non essere preparato, a meno che le circostanze non gli sembrassero incredibilmente favorevoli: così fu nel giugno del 1940 quando, caduta Parigi, la guerra sembrava impossibile da perdere per Berlino, con l’occasione di “scendere in campo” e dividersi il ricco piatto dei vincitori.

Sappiamo bene che le cose non andarono come previsto: anzi, nella direzione peggiore possibile. Del rischio, del resto, fa parte anche l’eventualità più tragica. L’Italia brillante di Mussolini avrebbe trovato nei legami con la Germania di Hitler quella strada senza uscita che portò alla fine del fascismo come esperienza storica e, soprattutto, come momento di sublimazione fondativa essenziale della Nazione.

Stelio Fergola

 

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