Roma, 16 giu – “È in piena guerra, quando i russi avanzano, che bisogna compiere i gesti decisamente europei e socialisti”. Era questa la conclusione di un famoso articolo di Pierre Drieu La Rochelle uscito il 15 aprile 1944 su Révolution nationale.
Il messaggio dello scrittore, che si sarebbe dato la morte dopo 11 mesi esatti, era chiaro: non bisogna aspettare che il cielo sia sereno per portare a compimento una rivoluzione, la decisione cruciale va presa proprio nel pericolo, quando apparentemente ci sono altre priorità a cui pensare. Anzi, scriveva, “il momento peggiore è quello migliore”.
Ora, indiscutibilmente questo è il momento peggiore per parlare di Europa. Che si parli di lavoro o di immigrazione, che si tratti di gender o dell’autoflagellazione culturale degli europei, l’Unione europea riesce inevitabilmente a essere l’avanguardia di quanto di più nocivo e ripugnante ci possa essere fra le opzioni politiche disponibili. Difficilmente, oggi, si potrebbe considerare l’Ue altro che un nemico.
Per la sua stessa natura, inoltre, il dinosauro di Bruxelles tende a disunire, anziché unire, fomentando gli egoismi nazionali e creando nuove rivalità fra stati e popoli: stati del nord risparmiatori contro stati del sud scialacquoni, blocco dell’est contro asse franco-tedesco, Italia contro gli stati che chiudono le frontiere agli immigrati sbarcati sul nostro suolo, paesi vittime dell’austerity contro la Germania etc.
Le impellenze della comunicazione politica di massa, poi, non permettono sfumature: è impossibile distinguere l’Unione europea dall’Europa o i governi francese e tedesco dai rispettivi popoli e dalle rispettive tradizioni senza disorientare un pubblico inferocito con Bruxelles che non distingue Dominique Venner da Jean-Claude Juncker.
E tuttavia mai come oggi occorre essere buoni europei, come chiedeva Nietzsche. Non solo perché tutti i problemi con cui abbiamo a che fare vanno affrontati a livello continentale, ma anche perché nel gigantesco attacco finanziario, sociale, politico, culturale e spirituale che le oligarchie hanno mosso a partire da sei o sette anni a questa parte, ciò che è in questione è semplicemente l’anima europea.
L’Europa come forma, come destino, come categoria mentale e spirituale, persino come sostanza etno-antropologica. È questo che vogliono abbattere, questo che vogliono deformare.
Ovviamente affinché questo mito possa essere riattivato ed essere effettivamente vivente, funzionale e rivoluzionario, occorre uscire dalle suggestioni adolescenziali e germanomani che vedono sotto la voce “Europa” affastellarsi immagini confuse di Tolkien e Frazetta, di Braveheart ed Excalibur. Un patchwork del tutto fantasioso e soprattutto non mediterraneo, infantilmente nordicizzante, con al più qualche legionario romano messo in mezzo ogni tanto a rendere il quadro ancor più pacchiano.
Essere Europa significa quindi riscoprire la centralità di Roma e non sostituire un’alienazione con un’altra. Ma significa anche sintonizzare nuovamente i nostri riferimenti su una giusta concezione dell’amico e del nemico, delle origini e del destino. Essere Europa. Questo è il momento peggiore per farlo. Quindi è quello migliore.
Adriano Scianca