Milano, 21 ott – Troppo spesso e sempre in occasione di tragici episodi di cronaca, torna d’attualità il tema della legittima difesa e, quindi, la contrapposizione tra fautori della reazione legittima a oltranza e abolizionisti, tra chi vorrebbe un ampliamento della possibilità di difendersi, soprattutto in ambito domestico, e chi, al contrario, ne reclama una definitiva abrogazione.
In ogni caso, non si può permettere che l’emozione del momento faccia sfumare una valutazione tecnica e obiettiva del problema.
L’emotività è nemico insidioso della considerazione di ogni questione giuridica, in particolare quando si tratta di segnare il confine, che in questi casi è sottilissimo, tra un aggredito, che ha tutto il diritto di difendersi per salvaguardare la sua e l’altrui incolumità, e un irresponsabile omicida, che, invece, deve essere chiamato a rispondere delle proprie azioni.
Le più recenti modifiche in materia penale – quelle sul femminicidio o sulle misure cautelari, ad esempio – insegnano che, quando si tenta di approntare una risposta legislativa per acquietare le ansie della pubblica opinione, il risultato è piuttosto misero, il frutto dell’emergenza è, spesso, talmente affrettato e confuso, da risultare difficilmente applicabile, se non inutile.
Conviene da subito mettere nero su bianco che non può essere in discussione l’esistenza stessa del diritto di difendere se stessi ed evitare che ingiustamente sia leso un proprio diritto.
Nessun sistema giuridico può tollerare, e secoli di storia lo confermano, che una persona aggredita subisca la commissione di un crimine, anche se ciò non significa che per difendere un bene di minimo valore se ne possa aggredire un altro più importante. La difesa per essere legittima richiede un rapporto di proporzione, altrimenti si trasformerebbe in un abuso. Anche se, peraltro, sarebbe opportuno e auspicabile un ampliamento della ritenuta proporzione tra difesa e offesa in favore di chi difenda la sua incolumità e quella altrui nel proprio domicilio o nelle sue pertinenze da chi vi si introduca abusivamente, armato non solo di oggetti atti ad offendere, ma anche di intenzioni ostili o furtive.
La chiave di lettura, allora, non è nella struttura o nella formulazione codicistica di questo istituto giuridico, quanto piuttosto la sua essenza di reazione privata, che si sostituisce a quella pubblica quando questa non è in grado di intervenire. Così, se in condizioni di normalità, nelle quali lo Stato adempie il compito di vigilare sulla sicurezza dei cittadini, il ricorso alla legittima difesa è un evento straordinario, il suo campo di applicazione tende a dilatarsi quando le politiche di ordine e sicurezza pubblici sono malgestite e, perciò, inefficaci.
Si scorge, allora, il dato comune di tutte le tragedie alle quali siamo costretti ad assistere e che è rappresentato, da una parte, dalla assoluta inefficienza dell’apparato di sicurezza pubblica, soprattutto per l’inadeguatezza delle risorse economiche che gli sono destinate, e, dall’altra parte, dall’esasperazione che questa situazione genera in coloro che sempre più spesso devono subire reiteratamente la commissione di delitti.
La soluzione, allora, non sta nell’invocare una riforma della legittima difesa, che potrebbe portare al perverso risultato di una sua trasformazione in una sorta di giustizia privata, ma nel recupero effettivo degli strumenti che da sempre hanno arginato e compresso la necessità che sia il singolo a tutelarsi. In questa ottica, allora, dovrebbero essere rielaborate le politiche di prevenzione al fine di evitare la commissione di reati, soprattutto quelli contro la persona e il patrimonio, e dovrebbe essere reimpostata ancor più attentamente la politica di repressione del crimine, facendo in modo che al delitto segua non soltanto, in tempi brevi, una risposta sanzionatoria, ma anche la concreta applicazione della pena inflitta.
Società degli Scudi