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Le imprese italiane delocalizzano e i cinesi si comprano l’Italia

by Michael Mocci
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DIGITAL CAMERARoma, 11 ott – Mentre le imprese italiane chiudono, di fronte alla totale indifferenza dei governi, per aprire in Cina, i grandi investitori cinesi stanno rilevando alcune grandi industrie italiane. Non solo bar, ristoranti, parrucchieri e negozi ma anche grandi e storiche aziende.

Dal 2003 ad oggi, sono passati in mano cinese 195 grandi imprese italiane tra cui il gruppo Ferretti, che costruisce yatch dal 1968, il marchio d’abbigliamento Sixty, il gruppo Cifa, che produce macchinari per l’edilizia dal 1928, il 50% del terminal container del porto di Napoli, la filiale italiana della casa automobilistica Volvo. Il tutto per un giro d’affari che impiega 10.000 persone e conta un giro d’affari di 6 miliardi di euro. Il dato interessante è che la maggior parte di questi investimenti sono sostenuti dalla China Investment Corporation, un fondo gestito dal governo cinese. Si noti la differenza con l’Italia: da noi il Governo con un consenso ideologico, con una pressione fiscale altissima e l’assenza totale di incentivi, appoggia ogni forma di delocalizzazione. Il che non significa assolutamente che la Cina sia un modello da imitare.

L’ultimo eclatante caso è stato quello della Coronet, azienda attiva nella produzione di pelle sintetica utilizzata nei settori della calzatura, il cui fondatore a gennaio è stato costretto a delocalizzare in Vietnam. “Siamo costretti – ha dichiarato il presidente Tagliarini – perché tutti i calzaturifici nostri clienti stanno delocalizzando lì. E se vogliamo sopravvivere, non abbiamo alternative. O investiamo nel sud-est asiatico o si muore”.
Il fenomeno delle delocalizzazioni, fortemente caldeggiato dal liberalismo, è di assoluta perdita per la nostra economia: non ci sono solo i 6,3 miliardi di euro investiti dagli imprenditori italiani in Cina invece che in Italia (dato Banca d’Italia), ma anche in 2,6 miliardi di euro che i piccoli imprenditori cinesi drenano dalla nostra economia con le loro attività e spediscono ogni anno in Cina ai propri familiari.
Mentre si perdono migliaia di posti di lavoro, tacciono i perbenisti, sempre pronti ad alzare la voce per chiudere la curva di uno stadio per uno sfottò ma silenti di fronte a rapporti economici miliardari intrattenuti con un paese, come la Cina, in cui i lavoratori sono ancora sfruttati come nell’ ‘800.

Michael Mocci

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