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Omicidio stradale: una legge che sa solo di propaganda

by La Redazione
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cid-incidente-stradaleRoma, 5 mar – È finalmente giunto al termine il travagliato iter legislativo per l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di omicidio e lesioni stradali. Il disegno di legge approvato lo scorso 2 marzo apporta numerose modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e al codice della strada, tutte finalizzate a un sostanziale inasprimento delle sanzioni da irrogare nei confronti di colui che violando le norme sulla circolazione stradale, cagioni incidenti che provochino morte o lesioni ad altre persone. Ponendo per un attimo da parte le questioni di carattere prettamente tecnico (a cominciare dalla complicata individuazione dell’elemento soggettivo del reato) che pure creeranno numerosi problemi agli interpreti, a caldo, la prima lettura del testo, che attende solo di essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, fa sorgere un serio dubbio sulla effettiva necessità di questa novella. L’impressione, infatti, è quella che si sia legiferato ancora una volta sull’onda dell’emozione, dando più ascolto all’opinione pubblica, anziché soffermarsi sulle implicazioni, anche di rilievo costituzionale, sottese alle nuove previsioni.

Già le definizioni dei nuovi delitti, con il loro esplicito richiamo alla natura “stradale” degli eventi, fanno trasparire questa preoccupazione del legislatore. Così, pur essendo chiaro che si debba punire con estrema severità chi si rende responsabile delle gravissime condotte che hanno ispirato i progetti di riforma, soprattutto quando l’incidente mortale scaturisce dall’assunzione di alcool e droga, i dubbi sorgono sulle soluzioni adottate, poiché probabilmente gli strumenti necessari già esistevano ed erano rappresentati dalle previsioni di circostanze aggravanti presenti nel codice. Del resto, è anche vero che alcune accorte decisioni, proprio applicando le regole del codice penale, avevano raggiunto il medesimo risultato, salvaguardando i principi fondamentali dell’ordinamento.

Dunque, sembrerebbe trattarsi di una modifica di carattere propagandistico, che rischia di risolversi in una ostentazione di severità eccessiva, come dimostra anche l’introduzione dell’arresto obbligatorio. Ciò che lascia perplessi, poi, non è tanto l’innalzamento delle pene massime, ma quello delle pene minime, che, in taluni casi, appaiono davvero esorbitanti e sembrano impedire al giudice qualsiasi possibilità di rendere la sanzione proporzionale alla gravità del delitto. Un esempio: la pena per l’omicidio commesso da una persona che guidava in stato di ebbrezza alcolica parte da un minimo di otto anni e arriva a un massimo di dodici: ma davvero chi si pone alla guida, anche dopo aver bevuto più del limite consentito e nella convinzione che ciò non pregiudichi le sue capacità, merita di essere punito con una sanzione quasi uguale a quella che il codice riserva all’omicidio preterintenzionale, che presuppone, invece, la volontà di ledere l’integrità fisica di una persona?

Identico discorso vale per le pene comminate per le lesioni, che in taluni casi si avvicinano a quelle previste per le lesioni dolose, commesse, cioè, proprio con l’intenzione di far del male e non per colpa. In questi casi, allora, è lecito domandarsi se una sanzione così severa possa davvero svolgere una funzione rieducativa e, quindi, rispettare le indicazioni costituzionali, oppure sia calibrata solo sul fine di comminare pene esemplari per dissuadere gli altri consociati e tranquillizzare l’opinione pubblica. Nella risposta a quest’ultima domanda, probabilmente, risiede la soluzione del problema, che ha un carattere più ampio e generale, perché sempre più spesso ci si trova dinanzi a un legislatore che minaccia punizioni, ricorrendo per la soluzione di ogni problema alla sanzione penale, per poi non trovarsi in grado di attuarle, a causa del carico di lavoro dei tribunali e del sovraffollamento carcerario.
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