Ha fatto un certo rumore la notizia che l’editore che nel Regno Unito ha i diritti per i libri di Roald Dahl, Puffin Books, abbia deciso di apportare delle modifiche ai testi dei romanzi dell’autore inglese che riguardano aggettivi e passaggi ritenuti dall’editore misogini, razzisti o irriguardosi nei confronti di alcune categorie come le persone sovrappeso. Si tratta, come è evidente, di una misura senza alcuna giustificazione, basandosi esclusivamente sul ricatto (come quasi tutte le iniziative della cancel culture). È l’equivalente dei cittadini di un paese di mafia che cambiano argomento quando parli loro del boss locale. Va detto che la levata di scudi contro l’iniziativa, almeno da noi, è stata abbastanza generalizzata. Si tratta di un eccesso che sicuramente si ripeterà, ma che non durerà all’infinito: alla fine si attiverà un dispositivo omeostatico che ci porterà a una sorta di «politicamente corretto ragionevole», che ovviamente sarà più infido di quello irragionevole.
Questo editoriale è stato pubblicato sul Primato Nazionale di marzo 2023
Qualche resistenza in più la farà la moda del blackwashing dei personaggi storici, poiché quanto meno motivata da teorie «scientifiche». Mentre i libri di Dahl vengono censurati per paura che arrivino gli scagnozzi woke a spezzarti un pollice, Achille diventa nero nelle serie sull’Iliade in virtù di fior di studi che intendono dimostrare che la «razza bianca» non è mai esistita e il meticciato nelle forme che conosciamo oggi è un dato stabile da sempre. Anche qui però ci sono motivi di speranza. Il primo è il botteghino: i prodotti culturali in cui ci si preoccupa più dell’inclusione che della sceneggiatura in genere fanno flop. Il secondo sono le contraddizioni interne: se c’erano, indisturbati, neri fra i re achei, neri nel Medioevo europeo, neri alla corte di Versailles, neri nella nobiltà dell’Inghilterra vittoriana, allora il razzismo non è mai esistito. Quindi, probabilmente, anche questa tendenza sarà a termine.
La sfida della cancel culture
La cancel culture nella sua globalità, tuttavia, pone sfide che non sono così facilmente archiviabili. I suoi difensori la interpretano come un «passaggio di microfono»: esisterebbero categorie restate sin qui «senza microfono» e che ora vorrebbero finalmente dire la loro. Se la cosa appare traumatica, è perché chi era abituato a tenere sempre il microfono vede questo passaggio come un affronto. Ovviamente si tratta di una lettura molto superficiale, con aspetti facilmente smontabili, ma che tocca comunque un aspetto cruciale: nel discorso pubblico di una società esiste un canone? Gli Stati occidentali ritengono di no, o, meglio, credono che il loro canone sia non avere canone. Nel loro discorso, quindi, tutte le sensibilità si equivalgono. In Cina o in Giappone si dà per scontato di trovarsi nella società dei cinesi o dei giapponesi, è ovvio per tutti che esista un canone dominante. Noi abbiamo deciso di non averlo. La cancel culture si batte dandosi un canone, certo aperto a ciò che lo eccede, ma senza pretese di universalità. Quindi il punto è, ancora e sempre: chi siamo noi? Prima di respingere l’assalto dei barbari woke, bisogna ritirar su le mura della nostra fortezza. E prima ancora, ridisegnarne il perimetro.
Adriano Scianca