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Il fascismo e l’impegno degli intellettuali: le lezioni di Bottai, Gentile e Ricci

by Corrado Soldato
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fascismo, intellettuali

Roma, 7 feb – Il fascismo e l’impegno degli intellettuali. In occasione di una conferenza tenutasi nel marzo 1924 Giuseppe Bottai, scagliandosi contro le «deformazioni manganellistiche che si attarda[va]no ai margini del fascismo e in forza di cui si tenterebbe […] di rivendicare alla manesca bravura di alcuni malati di eroismo postumo, tutto il merito di un movimento nazionale», intendeva probabilmente mirare, più che all’opposizione antifascista, al fascismo intransigente, restio alla “normalizzazione” mussoliniana. Si era, a un anno e mezzo dalla costituzione del governo Mussolini, nel mezzo di quella «polemica revisionista»[1] che, innestandosi sulle discussioni relative alla succitata “normalizzazione”, poneva il problema di cosa dovesse diventare il fascismo una volta asceso al potere, dopo la fase tempestosa degli anni di lotta.

Al di là del contesto polemico in cui era maturato, l’intervento di Bottai (pubblicato poi in Critica Fascista, la rivista di cui il gerarca romano era stato fondatore) appariva però ricco di suggestioni, soprattutto poiché vi si sollevava, e in modo neanche troppo larvato, un problema meritevole di analisi: quello del profilo di una cultura fascista e del ruolo che gli intellettuali, propugnatori di tale cultura, avrebbero dovuto assumere nell’edificazione del nuovo Stato e della nuova società nell’Italia di Mussolini. Per il fascismo, infatti, la questione di quello che era, e soprattutto doveva essere, il ruolo degli intellettuali nel movimento necessitava, fin dai primi anni Venti, di una delucidazione.

Proveremo allora a ricostruire, nelle sue linee essenziali, questo tentativo di chiarimento prendendo in esame i testi di tre fascisti che furono anche uomini di pensiero (e di pensiero profondo e fecondo): lo stesso Bottai (intellettuale, promotore di cultura, ma anche politico ben insediato ai vertici del regime), il filosofo Giovanni Gentile, il giornalista e scrittore Berto Ricci.

Bottai: le origini intellettuali del fascismo

Bottai, nel testo della conferenza da cui si sono prese le mosse, lanciava un attacco contro coloro (amici o avversari) che, nell’origine del fascismo, ritenevano assente l’«intelligenza», un termine che egli etimologicamente interpretava («nel senso più e limpido e puro di questa bella parola latina e italiana») come facoltà di intelligere (cioè di comprendere), ma che, in modo più estensivo, potremmo anche intendere nel senso di intellighenzia (il complesso degli intellettuali di una nazione). Alla pretesa assenza di cultura nella genesi del fascismo Bottai, curandosi di precisare quanto fossero estranee al suo animo le «infatuazioni» («[quelle] della disciplina, che diviene cecità, [o quelle] dello spirito critico, che diviene anarchia intellettuale»), reagiva dichiarandosi intenzionato a ristabilire una «verità semplice, consacrata […] nelle cronache del marzo 1919, [ovvero che] il primo nucleo costitutivo del fascismo fu di intellettuali» e che dunque «squisitamente intellettuali» erano le origini del fascismo medesimo.

Il riferimento al marzo 1919, dunque all’adunata sansepolcrista che fondò i Fasci di combattimento, non deve sorprendere, se si pensa a quali e quante correnti d’arte e di pensiero confluirono nel primigenio fascismo (futurismo, dannunzianesimo, sindacalismo rivoluzionario, solo per citarne alcune), rappresentate da «intellettuali che, provenienti da scuole, da discipline, da tendenze diverse e finanche opposte, si ritrovavano […] nell’improvvisa luce di un’intelligenza nuova, della vita in genere, della vita politica italiana in ispecie».

L’incombenza che Bottai assegnava a questo «movimento di intellettuali» che identificava con il fascismo era quella, senza dubbio ambiziosa, di promuovere una rivoluzione nel campo culturale, ma era altresì un compito che, al momento in cui egli si esprimeva, stava segnando il passo, avendone «le dure necessità della lotta antibolscevica» ritardato l’assolvimento, sulla base della pragmatica constatazione che «non si poteva filosofare con il nemico alle porte». Esso, comunque, si presentava come un obbligo ineludibile.

Quale rivoluzione auspicava, però, Bottai come missione di cui erano investiti gli intellettuali fascisti? Cosa intendeva il direttore di Critica Fascista (e poi del Primato) quando invocava, da parte di essi, una «revisione, distruttiva e costruttiva insieme, di tutta la civiltà moderna»? Il testo della conferenza, su ciò, rimaneva nel vago, precisando comunque, sul piano teoretico e su quello storico, le implicanze di quel «rifiuto della cultura del XIX secolo» da Bottai auspicato come elemento dottrinario proprio dell’intellettualità fascista. Sul piano teoretico, da un lato, si specificava che il fascismo non intendeva, con tale rifiuto, proporre un’apologia dell’ignoranza bruta né misconoscere il valore della conoscenza frutto dell’intelligenza (la quale, anzi, era valorizzata nella sua funzione critica, come capacità di «comprendere con immediatezza le cose, ossia di ricomprenderle, di rivalutarle»). Sul piano storico, dall’altro, si chiariva che il ripudio della cultura ottocentesca (quella liberale e democratica ereditata dalla Rivoluzione francese) e dei suoi cascami novecenteschi non andava inteso come sterile passatismo, nel senso reazionario del «rifiutare in blocco un periodo storico determinato e risalire a ritroso il corso della tradizione».

Gentile: la rivendicazione dell’antintellettualismo

Gentile, dal canto suo, sviluppava la questione nel 1927, in un denso capitolo di Origini e dottrina del fascismo intitolato Pensiero e azione. Centrale, nell’argomentazione del filosofo, era la categoria dell’«antintellettualismo» fascista, rivendicata contro le interpretazioni distorte di chi, muovendo da essa, riduceva il fascismo a mera manifestazione politica di una visione del mondo irrazionalistica e violenta. Traendo spunto sia dalla polemica mazziniana contro il «divorzio del pensiero dall’azione, della scienza dalla vita, del cervello dal cuore, della teoria dalla pratica» sia dalla propria concezione dello spirito umano come sintesi unitaria di pensare e agire, Gentile abbozzava un ritratto dell’uomo di cultura fascista che emergeva, per contrasto, dal confronto con una figura «storicamente tipica della classe colta italiana», quella detta del «letterato».

Chi era dunque questo intellettuale (fosse egli scrittore di letteratura oppure cultore di filosofia o di scienza) che Gentile bollava come «il prodotto bastardo del nostro Rinascimento», come la «mala pianta» che il fascismo intendeva «estirpare dal suolo italiano» per disegnare (lo si ricava per antitesi) un nuovo modello di uomo colto? La vis polemica gentiliana, di fatto, prendeva di mira l’intellettuale disinteressato, fedele all’idea di un’erudizione autoreferenziale, che optava per la sola dimensione teoretico-speculativa a discapito di quella pratica e menomava così lo spirito, rimuovendo uno degli elementi fondamentali della sintesi di cui esso si compone. Costui, il «letterato», era infatti un tipo tutto pensiero e niente azione (per dirla con Mazzini), che esauriva la «vita spirituale dentro l’esercizio di attività intellettuali astratte e remote da quella realtà in cui ogni uomo deve sentire piantata la propria esistenza». Contro siffatto intellettuale, emblema di una «cattiva cultura» che «non educa e non fa l’uomo, anzi lo disfà e lo impedantisce», si lanciava quindi il filosofo, contrapponendogli l’impegno pratico e politico di chi rifugge l’ideale epicureo del “vivere nascosti”. Da qui l’invettiva contro l’erudito che resta, metaforicamente, «alla finestra», osservando con apatico distacco la «strada», ovvero il mondo reale, «dove si combatte, si soffre e si muore», dimenticando così l’essenza antagonistica della vita in cui non dovrebbe esserci spazio per chi non prende parte alla lotta, non vi impegna tutto il proprio essere, per l’egoista «moralmente e politicamente indifferente» che si pone al di sopra della mischia «anche quando nella mischia è la sua Patria».

Ricci: l’«intelligenza rivoluzionaria»

Una posizione affine a quella di Bottai e di Gentile si ritrova in Berto Ricci il quale, se polemizzava spesso e volentieri con l’idealismo attualista, non per questo si muoveva «in un ambito di pensiero completamente emancipato dalla filosofia di Gentile»[2].

In un articolo pubblicato sull’Universale (di cui fu fondatore e direttore) nel marzo 1935, lo scrittore fiorentino descriveva l’intellettualità fascista (ovvero l’«intelligenza rivoluzionaria») in contrapposizione a una «cultura neutrale» e «fine a se stessa», disancorata dall’impegno nel mondo (e per questo motivo «burlesca e irreale») oltre che carente dell’attributo essenziale della «fede» (politicamente, e non solo religiosamente, intesa). Se nell’idea di Ricci di un’intelligenza fascista che si collocava, mazzinianamente, «sul piano dell’azione» e che «mira[va] al totale dell’uomo», promuovendo un «integrale sviluppo delle facoltà umane per […] tutte accoglierle nella sua sintesi» si coglieva l’eco di Gentile, era invece nella sua caratterizzazione in senso rivoluzionario che riaffiorava la visione di Bottai circa il ruolo «distruttivo e costruttivo» dell’intellettuale fascisticamente impegnato.

Inserita nel nuovo Stato mussoliniano, l’intelligenza (che era anche intellighenzia) fascista veniva, in effetti, chiamata a fornire un supporto e una propulsione fattivi all’opera di trasformazione politica e sociale del regime. Suo «carattere ideale», scriveva Ricci, era il «sentirsi portatrice e responsabile della rivoluzione italiana» e la sua azione, più che calarsi nella politica immediata, assumeva un significato più ampio, impegnativo e di lungo periodo ovvero quello pedagogico «[della] educazione e [della] trasformazione graduale dello spirito del popolo».

L’intellettuale fascista e quello marxista: un confronto

Questa ricostruzione, necessariamente parziale, del profilo dell’intellettualità fascista quale si desume da Bottai, Gentile e Ricci, offre anche il destro per un confronto con la funzione che all’intellettuale era invece assegnata in campo marxista.

Tra fascismo e marxismo, va precisato, la differenza era cospicua sul piano dottrinario, nella misura in cui il primo presentava, a differenza del secondo, una matrice non esclusivamente «teorica né logica» ovvero «non dovuta a un compendio sistematico e preordinato di idee» (Bottai), né appariva «una spiegata e definitiva dottrina politica che si articol[asse] in una serie di formule» (Gentile). Il ruolo dell’intellettuale, nelle due visioni, non poteva dunque che adeguarsi a tale eterogeneità filosofica di fondo.

Ciononostante, pur nell’inconciliabilità dei principi teorici e degli obiettivi politici, fascismo e marxismo avevano in comune il ripudio, benché differentemente declinato, del modello dell’erudito nella torre d’avorio. Il monito di Karl Marx nell’XI delle Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo», non era infatti così diverso alla critica gentiliana del distaccato «costruttore di sistemi che non dovranno affrontare il cimento della realtà». Quanto agli epigoni del fondatore del socialismo scientifico, né la concezione leninista del partito come avanguardia di rivoluzionari colti, in grado di maneggiare il complesso armamentario concettuale del materialismo storico-dialettico, né le riflessioni gramsciane sull’intellettuale organico come figura chiave per la costruzione di un’egemonia culturale finalizzata alla conquista e alla conservazione del potere, suonano poi così differenti dall’esegesi bottaiana del fascismo come «rivoluzione intellettuale» o dall’interventismo culturale propugnato da Ricci il quale, richiamando all’impegno militante le intelligenze del regime e del partito, le esortava a non rifugiarsi «in isolette oceaniche e paradisi artificiali».

Corrado Soldato

[1] Renzo De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi 1966.

[2] Attilio Cucchi, Prefazione a Berto Ricci, La rivoluzione fascista, AGA 2014.

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