Il fascismo affronta l’architettura con approccio pluralistico, inserendola gradualmente in una visione olistica dello Stato. Il potere politico anche in questo campo apre ad ogni tendenza, fornendo ai suoi interpreti progetti e concorsi su cui cimentarsi; ai blocchi di partenza ci sono tutti: giovani leve e vecchia guardia, neoclassici e modernisti, eclettici e razionalisti, tradizionalisti e futuristi, architetti integrali, antiromantici, novecentisti.
Grazie a questi progetti la teorizzazione accademica non perde il contatto con la costruzione reale. Anzi, più si progetta e realizza, più si allarga e innalza il dibattito sulla forma urbana, che si intreccia con quello della forma della società. Ogni progetto diventa un paradigma, perché si inserisce nella vasta rifondazione che mira a dare un volto allo Stato sociale. Nascono così scuole, università, ospedali, case, centri educativi e sportivi, biblioteche, teatri. Si fondano nuove città, si modificano quelle esistenti. Sono circa 180 i concorsi per piani regolatori che vengono predisposti in quegli anni. Uno di questi è quello di Milano, lanciato nel 1926 da Cesare Albertini, capo dell’ufficio tecnico del comune e personaggio di spicco nel dibattito urbanistico europeo. Anche questo bando sarà terreno di incontro e scontro, segnando un momento cruciale per il dibattito sul senso dell’urbanistica, dell’architettura e dei loro rapporti.
Il progetto vincitore porta la firma di Piero Portaluppi e Marco Semenza, che riorganizzano la città mutandone profondamente la fisionomia. Lasciando piazza Duomo come perno di una città radiocentrica, puntano all’allargamento di Milano verso le aree esterne attraverso un’edificazione continua a raggiera, secondo una visione realista e antiromantica che accetta distruzioni parziali della città per ricreare il tessuto urbano. Il realismo del duo vincitore è chiamato però a confrontarsi con gli altri concorrenti, innanzitutto con il progetto secondo classificato, elaborato dai professionisti legati al Club degli urbanisti, fra cui Giovanni Muzio, Giuseppe De Finetti e Giò Ponti. La loro ricetta per Milano è l’inserimento di una strada di raccordo e la salvaguardia della città storica. Indicano il ritorno al classicismo – mediato dalla rielaborazione napoleonica – per trovare la ‘regola’ su cui impostare la nuova architettura, che non è però la griglia indifferenziata di Portaluppi.
Simone Pellico