Roma, 3 gen – Pecore, lupi, cani da pastore. Per il soldato Chris Kyle il mondo è popolato dalle stesse tre categorie in cui l’aveva diviso suo padre, nel corso di una sbrigativa sessione di pedagogia casalinga. Nel mondo ci sono i mansueti, incapaci di fare del male ma anche impreparati ad affrontarlo quando alla loro porta bussano i malvagi. Fra buoni, troppo buoni, e cattivi, troppo cattivi, c’è però chi si mette in mezzo e sa essere puro come i primi e spietato come i secondi.
Mentre Chris Kile attraversava la sua hell week al centro di addestramento per Navy Seals, a San Diego, l’influente teorico neoconservatore Robert Kagan faceva di questa teoria vagamente metafisica un argomento geopolitico al servizio del presidente Bush Jr. Nel suo articolo “Power and Weakness”, uscito su Policy Review 113/ 2002, Kagan spiegava che gli americani venerano Marte, dio della guerra, mentre gli europei sono devoti a Venere, dea dell’amore. Gli Usa combattono il male mentre l’Ue si pasce nei piaceri. Quanto agli iracheni, probabilmente vengono dritti dritti dall’Ade: qualcuno deve pur ricacciarli all’inferno e questo è un compito per i “cani da pastore” dell’umanità.
Ha senso agitare lo spettro di tesi neocon seppellite ormai negli archivi per commentare American Sniper? Sì e no. Perché di fronte al nuovo film di Clint Eastwood, basato sulla vita di uno dei più valorosi soldati della storia militare americana, bisogna prima decidere il nostro grado di sospensione dell’incredulità.
Se cerchiamo verosimiglianza storica fra film e realtà, allora dovremo star qui a parlare di un attentato compiuto da 15 sauditi, due emiratini, un libanese e un egiziano, agli ordini di un miliardario anch’esso saudita, per vendicare il quale viene dichiarata guerra non all’Arabia, ma a uno stato laico e senza alcun legame mai accertato con il terrorismo. Dovremo tirar fuori la bufala delle armi di distruzione di massa. Dovremo ripercorrere le ragioni economiche, strategiche ed energetiche di quel conflitto. Dovremo parlare di Abu Ghraib e del massacro di Haditha.
Tutto questo, in American Sniper, non c’è. Ma semplicemente perché tutto questo non c’è nella testa di Chris Kyle, che è un texano tutto d’un pezzo. È muscoloso, tenace, virile, a scuola pesta i bulli, da grande vince le gare di rodeo e rimorchia, sia pur tra alterne fortune, le più belle su piazza. E quando vede in tv le gesta di Al Qaeda, non ci pensa due volte ad entrare nel più vicino punto di arruolamento. La guerra, per Kyle, è un affare semplice: qui ci siamo noi, lì ci sono loro. Bene e male. Mai un dubbio, perché il dubbio, in guerra, uccide più del piombo del nemico. Il profondo manicheismo del protagonista, peraltro umanizzato dalla faccia da spaccone buono di Bradley Cooper rispetto alle asprezze dell’originale, attraversa tutto il film. Ma è anche il punto di vista del regista?
Si resta costernati ma, inutile nasconderlo, anche potentemente affascinati dalla capacità americana di saper sfornare, nel 2015, film di propaganda di questa intensità, bellezza e forza estetica. American Sniper è un film commovente, che snida sentimenti discreti, pre-razionali. Come i Navy Seals, arriva di soppiatto alle spalle delle convinzioni personali di ciascuno e gli pianta un coltello alla schiena.
I paragoni con la filmografia di guerra americana si sprecano, ma American Sniper colpisce soprattutto per le pellicole a cui ammicca per poi deviare all’improvviso e prendere tutta un’altra strada. C’è Full Metal Jacket, ricordato anche visivamente nelle scene in cui il plotone avanza fra i palazzi distrutti di Falluja e le palme in fiamme. Ma qui il cecchino non è un “Charlie”, è americano, e sarebbe impensabile vedere Chris “La leggenda” Kyle che se ne torna a casa cantando la sigla del Club di Topolino, come un bamboccione catapultato al fronte quasi per caso. C’è Il Cacciatore, a cui esplicitamente allude la caccia al cervo. Ma qui, anche al ritorno dal fronte, non c’è ripensamento, non c’è esitazione, e anzi il valore iniziatico e pedagogico del saper “fermare un cuore che batte” prendendosene le responsabilità viene reiterato, all’inizio come alla fine del film. Kyle lo insegna ai suoi figli come suo padre ha fatto con lui. Egli non è cambiato. È diventato suo padre, ha replicato quel che l’ha portato a essere ciò che è: un cecchino americano.
Abbondantemente sondato è anche il filone sul disturbo post traumatico da stress che è così caratteristico dei veterani americani. In Europa, il soldato che ha difficoltà a reinserirsi nella vita civile fa una rivoluzione. In America fa una strage in un centro commerciale. Anche in questo caso, tuttavia, Eastwood sorprende tutti. Al ritorno dal fronte, Chris Kyle cammina per molto tempo sul limite di una soglia che tuttavia non varcherà mai. Il percorso virile di quest’uomo che, al cospetto dei propri demoni, sa guardarli negli occhi e affrontarli, è uno degli aspetti più sorprendenti del film.
La crisi psicologica del protagonista è sicuramente la scialuppa su cui salirà la critica progressista cercando di salvare il film alle ragioni della pace e dell’antimilitarismo. E già lo stanno facendo. Il New Yorker ha parlato in modo furbesco di un film che “tocca molte questioni attuali e complesse, dal disturbo post-traumatico da stress dei reduci di guerra, alle difficoltà del loro reinserimento – tema delicatissimo dai tempi del Vietnam (e di Rambo) – al possesso delle armi, alla violenza nella società americana”. Il Fatto quotidiano spiega che lo scopo di Eastwood “sembra essere quello di far identificare la macchina da presa con il disfacimento psicologico (e morale) in corso del corpo/macchina da guerra e, più in esteso, del dispositivo guerrafondaio statunitense”.
Mentono sapendo di mentire. Il corpo-corazza del soldato che Kyle si costruisce addosso, fisicamente e psicologicamente, negandosi a qualsiasi autocritica, non si rivela affatto un guscio vuoto, uno stratagemma da decostruire. Le pareti vibrano, ma alla fine l’armatura regge. In American Sniper non c’è redenzione, non c’è pentimento. C’è sublimazione.
E a chi volesse vedere la tanto attesa presa di distanza del regista dai valori del protagonista nel tragico epilogo, consigliamo di rivedersi il climax patriottico dei toccanti titoli di coda.
Dopo American Sniper, i centri di arruolamento saranno presi d’assalto da aspiranti nuovi Seals, che finiranno in mezzo mondo a combattere guerre infami per conto di oligarchie senza scrupoli e in nome di valori stantii. In un’ottica storica e politica, tutto ciò ha un nome: ideologia. Propaganda. Ma da un punto di vista esistenziale, psicologico e filosofico, il fascino di questa mistica del dovere e della fratellanza, di quest’ascesi combattentistica – oltre le voci della famiglia, dei commilitoni dubbiosi, dello stesso lato tremulo e fragile che è in ciascuno di noi – abbaglia i nostri occhi assuefatti allo psicologismo da straccioni degli Ermanno Olmi, dei Ferzan Ozpetek, dei Marco Bellocchio.
Anche su un mondo putrescente si può costruire una toccante e magnifica epopea. American Sniper è quell’epopea.
Adriano Scianca
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