Perché Flavio Insinna è più di un conduttore televisivo, che nella vita può essere simpatico o antipatico ma che ha l’unico compito di essere un bravo professionista e nulla più. Flavio Insinna ci vuole insegnare a vivere. Flavio Insinna è andato da Bianca Berlinguer e, in un contesto complice, ha tessuto la sua ode alla bontà, all’accoglienza e alla gentilezza. Non è affatto vero che oggi, in un clima di ostilità crescente contro gli immigrati, l’unica retorica facile che strappa applausi e parla alla pancia è quella “xenofoba”. Malgrado tutte le lamentele in questo senso, malgrado l’insofferenza popolare verso la cosiddetta accoglienza, fare l’elogio dei buoni sentimenti è ancora la strada più breve per avere successo. Insinna questa strada l’ha percorsa con calcolato cinismo, sapendo che se è praticamente impossibile per una Boldrini o per una Kyenge ormai ricevere consenso nei loro deliri, la strategia del pacioccone simpaticone che elogia la bontà funziona ancora. È, forse, l’unico linguaggio di sinistra oggi popolare.
Non a caso il suo sermone era stato rilanciato da Sinistra italiana e aveva ricevuto il plauso di Michele Emiliano. E invece il vero Insinna è quello lì, quello che umilia collaboratori, concorrenti, maestranze. Che elogia Landini in pubblico e poi si lamenta del sindacato in privato. E, in questo, c’è una potente rappresentazione antropologica della sinistra: quella che raccoglie i fondi per la carestia nel Darfur ma poi mortifica la domestica. Sembrano stereotipi, ma sono davvero così. Sono tutti così. I paladini della morale sono incapaci di etica, i loro buoni sentimenti sono il contrario di ogni buona coscienza. Predicano la bontà, ma pensano solo agli affari loro.
Adriano Scianca