Roma, 12 apr – Volereste più volentieri con Italia trasporto aereo o con Alitalia? Non è una domanda retorica, è una questione – primaria – di marketing. Il nome Alitalia esprime una storia, una qualità, anche una certa dose di affidabilità. Ita, invece? A sentirla sembra poco più che una sigla gettata lì, quasi per caso. Potrebbe sembrare una questione da dipartimento commerciale. Invece è la nuova frontiera del tavolo di trattativa tra governo e Bruxelles. E non è una questione di poco conto, al contrario offre la cifra di quel che l’Ue sta apparecchiando per la nostra compagnia di bandiera.
Spezzatino Alitalia
L’oggetto del contendere è noto: la Commissione chiede, per poter dare il via libera, che si proceda nel solco della discontinuità. Tradotto: una società più piccola, con pochi aerei, slot (i diritti di decollo e atterraggio dai principali aeroporti) svenduti al miglior offerente, una gara aperta per la cessione delle attività dell’attuale azienda in amministrazione straordinaria da quattro anni. Praticamente uno spezzatino che lascerà in dotazione a Ita nulla più che una cinquantina di aerei (meno della metà della flotta corrente), mentre il resto – programma di fedeltà Millemiglia, servizi di manutenzione e di terra – sarà messo all’asta.
La “nuova” Alitalia, insomma, partirà – è proprio il caso di dirlo – con le ali tarpate. La dimensione – già oggi non ragguardevole – sarà infatti del tutto insufficiente per competere con i grandi del settore. A meno di non voler tentare la strada della concorrenza alle low cost, beninteso: una pessima strategia che la gestione privata ha perseguito quasi sin dall’inizio, con esiti a dir poco disastrosi.
Niente marchio? Una perdita da mezzo miliardo
Se discontinuità dev’essere – è il ragionamento della Vestager, che quando si parla di Italia vede rosso (e prende pure granchi colossali, sacrificando senza ragione migliaia di risparmiatori) – allora che sia totale. Ita, almeno nei primi due anni, non potrà utilizzare il nome Alitalia. Sapete: la concorrenza. Sì, ma quale? Dopo i lockdown il comparto riparte quasi da zero. Campo da gioco livellato, con gli Stati chiamati a generose iniezioni di liquidità. L’ha fatto la Germania, lo sta facendo la Francia. Per l’Italia no, invece. Impossibile cogliere la straordinaria opportunità di rilancio. Per farlo occorrerebbe presentarsi sul campo con le giuste armi. Quella della riconoscibilità, ad esempio. A questo serve un marchio, specie se porta con sé una tradizione pluridecennale.
In sua assenza, il conto può essere salatissimo. Il conto è presto fatto: tra acquisto (all’asta) del marchio Alitalia, costi di marketing per far conoscere il nuovo nome Ita, rifacimento delle dotazioni di bordo e di terra (banalmente: anche i banchi dell’accettazione) e altri oneri accessori, la spesa complessiva può arrivare a 500 milioni di euro in cinque anni, spiegano gli esperti. Vale a dire 100 milioni l’anno o, per fare un altro raffronto, un sesto della dotazione di capitale da 3 miliardi che il governo si appresta a conferire. A quali condizioni adesso lo sappiamo: far esordire Ita (o Alitalia, che dir si voglia) destinandola ad un sicuro fallimento. Così chiede l’Ue.
Filippo Burla
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