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Ecco perché le pensioni sono destinate a sparire

by Filippo Burla
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Governo che vai, finanziaria che scrivi, riforma delle pensioni che pensi e allarme sulla sostenibilità del sistema previdenziale che trovi. Quasi una filastrocca, praticamente senza soluzione di continuità dal 1995 ad oggi, partendo dalla riforma Dini, passando per lo «scalone» di Maroni nel 2004, le «quote» di Prodi nel 2007, la spremuta di sangue operata dalla Fornero nel 2011 e tutti i (piccoli) correttivi adottati poi negli anni seguenti per mitigarne il devastante impatto. Tratto caratteristico di ogni intervento: la promessa che sarà l’ultimo, il definitivo, quello che darà un assetto stabile alle finanze dell’Inps per i decenni a venire. E puntualmente, nel giro di breve tempo, ci si ritrova di nuovo punto e a capo a discutere di innalzamento dell’età pensionabile, di giovani che accederanno – se e quando vi accederanno – ad assegni miseri e via dicendo.

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di aprile 2023

Per capire dove si colloca il nocciolo della questione bisogna partire spiegando, in breve, come si struttura il nostro sistema pensionistico. Il modello di funzionamento è quello – comune, peraltro, alla stragrande maggioranza dei sistemi pubblici al mondo – cosiddetto «a ripartizione», nel quale le prestazioni previdenziali dell’anno sono erogate a valere sui contributi versati dai lavoratori nello stesso periodo. Può portare fuori strada l’aver definito il regime come «contributivo». Perché è vero che l’assegno mensile che spetta a chi ha concluso la sua vita lavorativa è parametrato ai contributi pagati nel corso della sua vita lavorativa, ma l’equivalenza è puramente teorica al fine di dare un elemento di equità. Detta in altre parole, l’Inps non ha «messo da parte» le nostre somme per restituircele con gli interessi: quelle che hanno versato i nostri genitori finivano a pagare le pensioni ai nostri nonni, quelle che versiamo noi oggi vanno a erogare la pensione ai nostri genitori.

Esisteranno ancora le pensioni?

La base fondante della stabilità dei conti, più che sugli anni di permanenza o meno sul posto di lavoro, andrebbe dunque spostata sulla quantità (e sulla qualità) di quest’ultimo. In linea di massima, il nostro sistema può dirsi in equilibrio finanziario sul lungo termine se, per ogni pensionato, vi sono almeno 1,5 lavoratori attivi. Ad oggi tale valore si colloca attorno a 1,4 e, nonostante una (timida) risalita negli ultimi anni, le proiezioni per il futuro non lasciano ben sperare: stando alle ultime proiezioni, rischia di toccare quota 1,3 nel 2029, per poi scendere addirittura a 1 entro il 2050. Non c’è decurtazione d’assegno, non c’è incremento dei requisiti per…

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2 comments

Kki 13 Maggio 2023 - 3:14

Dopo anni di contributi quel giorno che le tolgono chiamatemi per missioni kamikaze .

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fabio crociato 15 Maggio 2023 - 12:54

Non hanno soldi a sufficienza (e ci credo visto pure che parecchi hanno imparato a fatturare su chi non lavora, considerato neo-keynessianamente una buca ), allora paghino in natura, concedendo l’ uso gratuito di terra a chi ha bisogno di stare in salute, recuperare la salute e far stare in salute. Forse più giovani capiranno dove è meglio stare (e non solo Capanna & C.). E l’ urbe non Urbe ma carcere, andrà a farsi fottere.

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